Umberto Galimberti: Noi, gli eremiti di massa

02 Settembre 2005
Il sospetto è che la sempre più massiccia diffusione dei mezzi di comunicazione abolisca progressivamente il bisogno di comunicare, perché nonostante l’enorme quantità di voci diffuse dai media, o forse proprio per questo, la nostra società parla nel suo insieme solo con se stessa. Alla base infatti di chi parla e di chi ascolta non c’è, come un tempo, una diversa esperienza del mondo, perché sempre più identico è il mondo a tutti fornito dai media, così come sempre più identiche sono le parole messe a disposizione per descriverlo. Il risultato è una sorta di comunicazione tautologica, dove chi ascolta finisce con l’ascoltare le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque. In questo senso dicevamo che la diffusione dei mezzi di comunicazione che la tecnica ha reso esponenziale tende ad abolire la necessità della comunicazione. Con il loro rincorrersi, infatti, le mille voci che riempiono l’etere eliminano progressivamente le differenze che ancora sussistono fra gli uomini, e, perfezionando la loro omologazione, rendono superfluo, se non impossibile, parlare in prima persona. Qui non si tratta di enfatizzare o demonizzare le enormi potenzialità presenti e future dei mezzi di comunicazione, ma di capire come l’uomo profondamente si trasforma per effetto di questo potenziamento.
Allo scopo è necessario far piazza pulita di tutti quei luoghi comuni, per non dire idee arretrate, che fanno da tacita guida a quasi tutte le riflessioni sui media, e in particolare a quella persuasione secondo la quale l’uomo può usare le tecniche comunicative come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, senza neppure il sospetto che la natura umana possa modificarsi proprio in base alle modalità con cui si declina tecnicamente nella comunicazione. Infatti il telefonino, la radio, la televisione, il computer ci plasmano qualunque sia lo scopo per cui li impieghiamo, perché una trasmissione televisiva edificante e una degradante, per diversi che siano gli scopi a cui tendono, hanno in comune il fatto che noi non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto le immagini. Il ‟mezzo”, indipendentemente dallo scopo, ci istituisce come spettatori e non come partecipi di un’esperienza o attori di un evento.
Questa condizione, che vale per la televisione, vale in maniera esponenziale per Internet dove il «consumo in comune» del mezzo non equivale ad una ‟reale esperienza comune”. Ciò che in Internet si scambia, quando non è una somma spropositata di informazioni, è pur sempre una realtà ‟personale” che non diventa mai una realtà ‟condivisa”. Lo scambio ha un andamento solipsistico dove un numero infinito di eremiti di massa comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati l’uno dall’altro, chiusi nel loro guscio come i monaci di un tempo, sui picchi delle alture, non per rinunciare al mondo, ma per non perdere neppure un frammento del mondo in immagine. E così, sotto la falsa rappresentazione di un computer personale (personal computer), ciò che si produce è sempre di più l’uomo di massa, per generare il quale non occorrono maree oceaniche, ma oceaniche solitudini che, sotto l’apparente difesa del diritto all’individualità, producono come lavoratori a domicilio beni di massa e consumano come fruitori a domicilio gli stessi beni di massa che altre solitudini hanno prodotto.
A questo punto le considerazioni di Gustave Le Bon sulle situazioni di massa che alterano l’individuo sono ampiamente superate perché, grazie al personal computer, oggi si procede a domicilio a questa degradazione dell’individualità e al livellamento della razionalità. Ciò comporta un capovolgimento tra interiorità ed esteriorità, e più in generale tra interno ed esterno. Se un tempo la famiglia era l’‟interno” in cui si scambiavano quei tratti affettivi d’ira e d’amore e più in generale quella libertà espressiva che occorreva contenere fuori all’‟esterno”, oggi, grazie alla diffusione della tv sempre accesa, la famiglia è il luogo in cui è di casa il mondo esterno, reale o fittizio che sia. La casa reale, con le sue quattro mura e i suoi quattro mobili, è ridotta a un container per la recezione del mondo esterno via cavo, via telefono, via etere, e quanto più il lontano si avvicina, tanto più il vicino, la realtà di casa, quella familiare, si allontana e impallidisce. Tutto ciò non dipende dall’uso che facciamo dei mezzi, ma dal fatto che ne facciamo semplicemente uso, per cui non gli scopi a cui sono preposti i mezzi, ma i mezzi come tali trasformano l’immagine in realtà e la realtà in fantasma. Come il gas, l’acqua, la luce, così i mezzi di comunicazione digitali, indipendentemente dall’uso che ne facciamo, ci portano gli avvenimenti in casa dispensandoci dall’andare verso di loro. Ciò trasforma il nostro modo di fare esperienza, se non altro perché chi vuol sapere cosa avviene fuori casa deve andare a casa, e solo allora, quando ciascuno di noi è ridotto a una monade leibniziana senza porta e senza finestre che si aprono sul pianerottolo del vicino o sulla strada sotto casa, solo allora l’universo si riflette per noi e si offre a portata di mano. Non più il viandante che esplora il mondo ma il mondo che si offre al sedentario che è al mondo proprio perché non lo percorre, e al limite neppure lo abita. La rivoluzione ha del copernicano, perché il mondo non è più ciò che sta, ma a stare (seduto) è l’uomo, e il mondo gli gira attorno capovolgendo i termini con cui, dal giorno in cui è comparso sulla terra, l’uomo ha fatto esperienza. Le conseguenze non sono da poco. Se il mondo viene a noi, noi non ‟siamo-nel-mondo” come vuole la famosa espressione di Heidegger, ma semplici consumatori del mondo. Se poi viene a noi solo in forma di immagine, ciò che consumiamo è solo il fantasma. Se questo fantasma lo possiamo evocare in qualsiasi momento, siamo onnipotenti come Dio. Ma poi questa onnipotenza si riduce, perché, se possiamo vedere il mondo senza potergli parlare, siamo dei voyeurs condannati all’afasia. Tutto questo dal nostro punto di vista. Se poi ci mettiamo dal punto di vista del mondo, allora assistiamo a un’altra serie di strane trasformazioni. Se un fatto che accade in luogo determinato può essere trasmesso in qualsiasi luogo della terra, quel fatto perde la sua ‟individuazione” che è sempre stato il tratto caratteristico dei fatti. Se per vederlo bisogna pagarlo, allora quel fatto, insieme a tutta la serie dei fatti, cioè il mondo, diventa merce. Se la sua importanza dipende dalla sua diffusione attraverso i media, allora l’essere dovrà misurarsi sull’apparire. Inutile dire che in questa condizione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, si riduce, fino ad annullarsi, lo spazio della libertà e il bisogno di interpretazione. Ma questa riduzione non può essere avvertita perché, per esserlo, occorrerebbe disporre di un altro mondo rispetto al mondo rappresentato, che invece è l’unico che il monologo collettivo dei mezzi di comunicazione ci concede di abitare. Ci veniamo così a trovare in una condizione analoga a quella descritta da Gunther Anders in quel ‟racconto per bambini” dove si narra questa storia: ‟Il re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio sul mondo; perciò gli regalò carrozza e cavalli: ‘Ora non hai più bisogno di andare a piedi’ furono le sue parole. ‘Ora non ti è più consentito di farlo’ era il loro significato. ‘Ora non puoi più farlo’ fu il loro effetto”. Che c’entra questa storia? C’entra. Perché i mezzi di comunicazione, se ci mettono in contatto non con il mondo, ma con la sua rappresentazione, se ci consegnano una presenza senza respiro spazio-temporale perché rattrappita nella simultaneità e nella puntualità dell’istante, se modificano il nostro modo di fare esperienza, avvicinandoci il lontano e allontanandoci il vicino, se ci familiarizzano l’estraneo e ci forniscono i codici virtuali per l’interpretazione del mondo reale, i mezzi di comunicazione ci codificano e producono delle modificazioni nell’uomo indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Per questo neghiamo che i mezzi di comunicazione siano soltanto dei ‟mezzi”. Se telefonino, radio, televisione, computer determinano un nuovo rapporto tra noi e i nostri simili, tra noi e le cose, tra le cose e noi, allora i mezzi di comunicazione ci plasmano qualsiasi sia lo scopo per cui li impieghiamo, e ancora prima che assegniamo ad essi uno scopo. Come si vede, essere esposti non al mondo, ma alla visione del mondo, o se si preferisce «essere digitali» comporta qualche problema filosofico e soprattutto incide sul nostro modo di fare esperienza che non è un fatto del tutto trascurabile.
Già 50 anni fa Gunther Anders ne L’uomo è antiquato, sospettava che il mondo può diventare illeggibile per overdose di informazioni e l’uomo può perdere il bene più prezioso che è la capacità di far esperienza. Non siamo infatti onnipotenti come i mezzi di cui disponiamo, e non saranno certi mezzi onnipotenti capaci di mettere in comunicazione milioni di solitudini e fare di tutti i solitari, privati proprio dai mezzi di comunicazione della possibilità di fare un’esperienza condivisa, gli abitanti di un mondo comune.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …