Maurizio Maggiani: Le verità dell'anima e la rockstar di culto

19 Settembre 2005
L’altra sera sono stato a un concerto di Patty Smith e ho ripreso ad avere un po’ di fiducia nella vita, in quella che mi spetta, in quella che verrà. Forse sono uno che con poco si accontenta; ma chissà, forse il rock, in associazione chemioterapica a qualche altra medicina, ci salverà. Dalla tristezza, almeno da quella, ci salverà.
Patty Smith è una signora un po’ più anziana di me. Ha fatto la sua vita di rockstar e ha attraversato tutte le turbolenze della sua generazione e oggi vive una tranquilla e appartata e pensosa vita di madre che ha perso il suo uomo, che pensa di averlo perso insensatamente, così come sono tutte le perdite. A differenza di quella della gran parte dei suoi colleghi la sua è oggi una vita assai comune, una vita che molti della nostra generazione hanno imparato a condurre, quasi miracolosamente, con dignità senza rassegnazione, ancora capace di un nuovo stupore senza il tormento del disinganno. Ma, a differenza di tutti noi, Patty Smith un paio di dozzine di volte l’anno sale sul palco.
Sale su in paradiso, come lei dice; e intende il luogo della sua trasfigurazione. E canta e suona il suo rock, e danza e recita, e fa quello per cui andiamo e vederla e sentirla: se stessa fuori dalla sua età, dalla sua assai presumibile artrosi, dalla consunzione naturale delle sue corde vocali. Non si traveste e non finge, non trucca e non indulge; fiduciosa della forza che sta dentro la sua musica e la sua poesia.
Sono andato a questo concerto, dunque. Come accade sempre ormai quando si allestisce uno spazio per la musica cosiddetta di consumo giovanile, il concerto si svolgeva all’interno di uno spazio recintato e allestito con il gusto e le modalità di un campo di concentramento. Benvenuti a Sebrenika, oppure: il rock rende schiavi, avrebbero potuto scrivere all’ingresso.La signora Smith non chiama decine di migliaia di fan, la signora è una musicista di culto, come si dice, e quella sera eravamo sì e no in duemila, tanti quanto ne contiene un moderno teatro del genere degli Arcimboldi di Milano, tanti quanto si siedono comodamente in quel teatro a sentire le Variazioni Goldberg eseguite da Bruno Canino.
Ma evidentemente siamo in due mondi diversi: stelle stalle, inclito pubblico e animali. Tra gli animali ero tra i più anziani. Come ho subito notato, lo sparuto nucleo di miei e suoi, della Smith, coetanei se ne stava a lato, strategicamente posizionato a ridosso di una staccionata, a cui potersi appoggiare e sostenersi. Perché a cinquant’anni non si sta in piedi due ore a seguire con ciò che rimane della mobilità flessile del proprio corpo senza risentirne per una settimana almeno. Ma, appunto, noi eravamo in pochi. I più erano giovani davvero, un bel po’ giovanissimi. Che conoscevano la musica della signora, che seguivano assieme a lei canzoni scritte in un’epoca che non è stata la loro.
Per tutta la mia infanzia mio padre non ha tralasciato una sola sera di cantarmi qualche canzone, qualche aria d’opera, sono cresciuto con la sua cultura musicale prima di farmene una mia, così oggi canto, sguaiatamente, impudentemente, ogni genere di canzoni, da "nessun dorma" a Starway to Heaven. Ma so, e è un grande dolore, so che i padri della mia generazione non si curano di addormentare i loro figli consegnando loro qualcosa per i loro sogni, anche fosse una canzone. Non fanno un granché i miei coetanei per i sogni dei loro figli. Di quelli che erano attorno a me al concerto di Patty Smith e davano a vedere di essere suoi conoscenti di vecchia data e di amare con grande intensità la sua poesia. Che è poesia rivoltosa, riguardi l’amore, riguardi le cose del mondo.
E allora mi sono chiesto: come è possibile questo? Come è possibile che dei ragazzi possano ancora credere a quelle parole dentro quella musica? E possano cantare a squarciagola People Have the Power o Free Money? Che genere di potere questi ragazzi pensano che debba avere il popolo, che natura di purezza l’amore? Come i padri anche loro, assai probabilmente, non vedranno mai un qualche genere di vero potere affidato al popolo e combatteranno, e si stancheranno di combatteranno, e si stancheranno dell’amore che i padri non hanno saputo far loro contemplare. È forse la forza dell’illusione. La necessità dell’illusione. La musica rock è un oppio così potente da funzionare anche con chi è nato immunizzato da genitori assuefatti? Ma è anche vero che l’amore è amore solo nella purezza e il popolo ha diritto al potere. Verità di ieri, di oggi, di sempre. Verità non politiche, verità dell’anima, se si può dire.
Questi ragazzi, lo so, non hanno alcuna fiducia nella traduzione in pratica politica di quello che pensano e stanno cantando, e temono fortemente di non saper guidare o loro affetti. Sbagliano? Sì, sbagliano, ma hanno tutte le ragioni del mondo per sbagliare. Se le belle illusioni per cui vale la pena di vivere, se i sogni per cui vale la pena di cantare e lottare possono solo trovarle nel concerto di un’attempata rockstar.
No, il rock non ha mai salvato e non salverà nessuno, ma chi mai, tra i figli di questi ragazzi, ricorderà tra vent’anni una sola frase di uno degli uomini che oggi avrebbero il compito di rendere possibili i sogni e ragionevoli le illusioni? E dubito che qualcuno se la ricordi ora. E valga la pena di ricordarla.

Maurizio Maggiani

Maurizio Maggiani (Castelnuovo Magra, La Spezia, 1951) con Feltrinelli ha pubblicato: Vi ho già tutti sognato una volta (1990), Felice alla guerra (1992), màuri màuri (1989, e poi 1996), Il …