Rino Genovese: A proposito di Convivenze difficili

28 Ottobre 2005
La globalizzazione mette in luce gli aspetti dell’unificazione economica e tecnica del mondo contemporaneo ma sfugge alle questioni di fondo: i rapporti tra culture, la loro coesistenza insieme necessaria e conflittuale… un colloquio con Rino Genovese.

Sulla composizione del libro e sul socialismo
Ho cercato di commentare i drammatici avvenimenti internazionali degli ultimi anni sulla base di una rete di concetti teorici. Un esercizio sperimentale, in un certo senso: mettere alla prova dei concetti prima di averne dato la mappa ragionata, che sarà l’oggetto di un altro volume in uscita nel 2006. Però, strada facendo, il progetto di Convivenze difficili si è complicato. Il libro è diventato un po’ più difficile del previsto: c’erano da chiarire alcune cose, per esempio cos’è il socialismo, che è una cosa nient’affatto ovvia, soprattutto quando si parte da una descrizione del mondo odierno basata sul concetto d’ibridazione culturale. Come si fa a mettere insieme il socialismo, che ha una forte componente universalistica, con l’idea della diversità e relatività delle culture?
A questa domanda ho tentato di dare una risposta cercando di liberare definitivamente il socialismo dal suo vizio economicistico, secondo me presente anche in Marx: perché la famosa concezione materialistica della storia, con il fattore in ultima istanza determinante che sarebbe quello economico, è una visione della storia innanzitutto unica (un’idea di storia universale per nulla relativistica), e perché questa forte componente economica - ereditata proprio da quegli economisti che Marx criticava, ma da cui era influenzato - esclude qualsiasi centralità delle culture, qualsiasi riflessione sulla loro diversità.
Il discorso intorno al socialismo dovrebbe invece ripartire proprio dal concetto di cultura, che andrebbe analizzato e spezzato: perché non possiamo restare all’interno delle identità culturali, delle loro contrapposte differenze e dei loro reciproci scontri, presunti o reali che siano. Anche se ci atteniamo a una concezione puramente antropologica della cultura non ne veniamo fuori, in quanto la cultura è comunque qualcosa di totalizzante. Qui allora interviene l’idea dell’individualismo moderno, che ha da dire ancora qualcosa se non viene giocata contro il socialismo come accade con il pensiero liberale, anche perché il socialismo non è soltanto quel collettivismo dispotico che abbiamo visto disastrosamente all’opera nel cosiddetto socialismo reale. Anzi, il socialismo aveva sin dall’inizio degli aspetti individualistici, libertari, che Marx a un certo punto ha messo in secondo piano, e che invece andrebbero ripresi.
Insomma, all’interno di una visione della comunicazione sociale basata sull’individualismo moderno, si può rilanciare l’idea del socialismo. Un socialismo che ha le sue radici nella tradizione europea occidentale: niente a che fare con quei socialismi che si sono sviluppati nel Terzo Mondo, ancor meno con quello di marca sovietica, ma in fondo anche poco a che fare con i partiti socialisti europei così come li vediamo oggi, incapaci di progetto e utopia (con la felice eccezione della Spagna e di Zapatero, tuttavia). Una proposta nel complesso inattuale, dunque.

Sull’idea di non contemporaneità dei tempi storici
È un’idea che viene da Ernst Bloch: la storia è fatta di diverse storie e di diversi tempi storici. Bloch ha utilizzato questo concetto per descrivere la nascita dei fascismi. Diversamente da altri autori che sostengono che i fascismi siano semplicemente un aspetto della modernità, o della difficoltà di governare le questioni sociali poste dalla modernità, Bloch ha invece insistito sul fatto che il fascismo è qualcosa che affonda le radici nel passato. Si tratta di un passato che non passa. Gli aspetti, peraltro ben noti, per cui il fascismo, soprattutto all’inizio, è stato un movimento di piccoli borghesi messi in difficoltà dallo sviluppo, e di classi sociali legate alla produzione agricola ansiose di ritornare a un passato preindustriale - tutto questo viene da lui sottolineato in modo particolare. Il fascismo sarebbe il risultato di una compresenza di tempi storici moderni e insieme non moderni, di un passato che non riesce a passare all’interno della modernità stessa. Questa l'idea iniziale. Io ho messo in relazione l’idea della non contemporaneità della storia con un discorso più personale sui rapporti tra le culture e sulla loro ibridazione.
L’ibridazione, quindi, non è soltanto ibridazione tra culture diverse; è anche ibridazione dei tempi storici all'interno della modernità occidentale alle prese con il proprio passato. In realtà l’Occidente non ha mai fatto i conti nemmeno con se stesso, figuriamoci poi con le altre culture… Pensiamo a questa paura del tramonto, del tramonto dell’Occidente, che ogni tanto ritorna. Oggi ci ritroviamo più o meno nella stessa situazione emotiva che era dominante alla vigilia della prima guerra mondiale, e che portò alla catastrofe.
Allora, ecco i primi due aspetti dell’ibridazione: ibridazione tra le culture, nel senso che la modernità occidentale si trova di fronte comunque altre culture, più o meno aggressive nei suoi confronti (oggi lo si vede con l’islamismo); e poi ibridazione dei tempi storici, collegata all’ibridazione delle culture, perché all’interno della modernità ci sono aspetti che non passano, che non sono neppure delle semplici sopravvivenze, ma proprio delle cose che non sono mai cambiate, come appunto la paura, che è qualcosa di arcaico e può condurre, anzi ha già condotto, a catastrofi successive.
Un terzo aspetto del concetto di ibridazione è dato dalla creolizzazione. Il termine viene da Marshall Sahlins: il modello è dato dalle lingue creole, ma in termini più generali si riferisce al fatto che le culture ‟altre” non se ne stanno lì ferme (come sosteneva Lévi-Strauss, pensando che ci siano delle popolazioni sostanzialmente senza storia, immobili). Le culture, anche dominate, rispondono alla dominazione: hanno risposto e rispondono a quello che è loro accaduto attraverso la dominazione coloniale. In questo modo si ha una creolizzazione, che è il fenomeno dell’ibridazione culturale visto e vissuto dal lato delle culture dominate. Sono questi i tre piani dell’ibridazione, almeno come compaiono in questo libro.

‟Mostrificazione” del passato arcaico-tradizionale
L’espressione indica che viene meno la speranza moderna in un progresso universale: ciò fa assumere un volto terribile all’Occidente, quello dell’attuale ‟guerra infinita”, il volto di una tribù arcaica; e però stravolge anche l’altro lato della relazione, perché la risposta che alcuni appartenenti a una cultura come quella arabo-islamica danno, con il terrorismo, appare come una mostrificazione della loro stessa tradizione. Il termine ‟mostrificazione” indica che la scommessa sull’idea di una storia universale è ormai persa. A ciò si può reagire con la proposta di una filosofia della storia plurale, che tenga conto delle diverse culture, dei diversi tempi storici, ma che mantenga un’idea di progresso civile e morale nella forma del compromesso: non più, cioè, come una storia totale della ragione e dei Lumi, ma come un patto di convivenza, in cui siano fatti salvi alcuni obiettivi e valori anche elementari, come per esempio che non ci si distrugga vicendevolmente in una spirale di guerra e terrorismo.

‟Conflitto ben temperato” e ‟coesistenza conflittuale priva di violenza”
Sarebbe la riformulazione dell’utopia. L’utopia collegata all’idea di progresso universale è l’utopia della pacificazione sociale totale: quella che poi ha portato anche agli orrori del socialismo reale, perché alla base c’era questa idea dell’utopia come fine di ogni conflitto. L’utopia moderata, invece, se vogliamo un’utopia realistica, è un’utopia in cui sono previsti sempre e comunque dei conflitti: però questi conflitti andrebbero condotti in maniera non violenta. So che questa è un’utopia, soprattutto in questo momento. Ma il problema è come praticarla: bisogna cercare delle mediazioni. La proposta è quella della politica, della mediazione diplomatica al posto della guerra. È una strada utopico-realistica che non è stata neppure tentata in questi ultimi anni. Si può dire che non sia stata tentata già nel ’91, quando ci fu la prima guerra del Golfo: già allora si poteva prendere un’altra strada, quella della trattativa, della politica. Invece si è dato inizio alla guerra quasi subito, e da lì vengono i successivi disastri. La situazione va incancrenendosi da molti anni: l'inizio di tutto è dato proprio dalla prima guerra del Golfo. Con quella guerra un Occidente che si credeva ormai trionfante, ha scatenato una sorta di antiutopia oggettiva. Ritenendosi forte, ma incapace di esercitare la sua forza nella forma dell’influenza, non ha saputo riportare il discorso sul terreno della politica e della diplomazia, che è l’arte di disinnescare i conflitti, di condurli appunto sul piano di una coesistenza conflittuale.

Sul ritiro dalla striscia di Gaza
Bisogna vedere cosa accadrà, perché finora lì c’è stato un batti e ribatti che è proprio l’esempio di una guerra che non finisce mai. Certo, mentre parliamo sembra che qualcosa stia cambiando: i coloni stanno andando via, sia pure con delle resistenze forti. Bisogna vedere cosa accadrà dopo: non sono molto ottimista. Al momento, comunque, sembrerebbe aprirsi uno spiraglio per la pace.



‟Obiezioni e controbiezioni”
L’obiezione principale è: come si fa a proporre un’utopia, sia pure un’utopia che non si basa sull’idea di una fine generale dei conflitti, come si fa a proporre questo dopo l’11 settembre e altri episodi di terrorismo molto gravi?
Bene, io considero più realistica l’utopia della prospettiva di una guerra senza fine. Si vede giorno dopo giorno che la guerra è una spirale: più guerra più terrorismo, più terrorismo più guerra. È una prospettiva bloccata, imposta dall’amministrazione statunitense, anche in modo biecamente propagandistico. Il realismo dell’utopia consiste nel praticare ogni giorno la strada della politica, della diplomazia, del tentativo di dialogo interculturale, anche quando questo sembra impossibile. Non credo ci siano altre strade.

Teoria della menzogna
La menzogna è al servizio della propaganda, anche in senso puramente elettorale: serve a far scomparire dalla politica qualsiasi elemento utopico. Nella comunicazione la propaganda viene utilizzata per produrre influenza, quindi la menzogna è una componente dell’influenza, della ricerca d’influenza. Ma con la menzogna l’influenza non può che essere di corto respiro. L’abbiamo visto: l’amministrazione Bush ha vinto le elezioni, ma si avvita nella spirale guerra-terrorismo: ne avremo per altri quattro anni.
L’unica strada è ancora quella della tolleranza, anche lì dove sembra che sia impossibile. La tolleranza è il programma minimo: è già all’interno del liberalismo. Forse è la cosa più importante della tradizione liberale. L’idea ulteriore, quella socialista, consisterebbe nel riuscire a mettere insieme persone di culture differenti all’interno di una lotta di liberazione: per esempio, le donne delle altre culture in lotta contro l’oppressione patriarcale e familistica insieme con le donne occidentali. Questo significa immaginare la possibilità di qualcosa di più della tolleranza, un vero e proprio affratellamento tra coloro che lottano. È una prospettiva utopica ulteriore.

Lotta dei sessi
L’espressione ‟lotta dei sessi” è un modo letterario per riferirsi all’emancipazione della donna nel corso del Novecento: un esempio di lotta che agita il mezzo simbolico di comunicazione detto ‟potere”. Non si tratta di un discorso che abbia a che fare con l’economia. Mentre la lotta di classe ha comunque un elemento economico alla base, all’interno del movimento di emancipazione femminile del Novecento c’è un elemento immediatamente di potere, la volontà di affermare i propri diritti. In questo c’è anche un aspetto universalistico: si tratta dell’avanzamento della democrazia. Impossibile infatti parlare di democrazia senza il suffragio universale. L’aver posto come prima rivendicazione quella del suffragio universale, da parte delle suffragette, mostra cosa significhi realizzare la democrazia attraverso il suo allargamento: è un elemento universalistico, posto a partire dalla posizione delle donne. Questo fa sì che il discorso sul potere sia immediato, mentre nella lotta operaia l’elemento universalistico dei diritti passa attraverso la mediazione data dall’economia, dal mezzo simbolico di comunicazione detto ‟denaro”: le lotte per avere una retribuzione più alta, le lotte per una diminuzione dell’orario di lavoro, sono lotte che partono dall’economia. Certo, hanno anche ricadute generali sui rapporti di potere all’interno della società: però prima c’è l’elemento economico. Questo non lo si vede nella lotta di emancipazione delle donne: ciò la rende più interessante ancora. Oggi questo modello va proposto come modello di lotta generale.

Le adolescenti Alma e Lila
Una lunga intervista con loro è stata pubblicata, in Francia, in un libro che ho molto apprezzato: viene fuori che riutilizzano, se vogliamo in chiave ‟femminista”, degli aspetti arcaico-tradizionali. La scelta d’indossare il velo ha un segno mutato rispetto a quello che può essere, per noi, il velo nel mondo arabo. Lo fanno a Parigi, e la loro scelta assume una valenza diversa. Gli elementi culturali arcaico-tradizionali, ricombinati all’interno della modernità, danno luogo a delle conseguenze diverse rispetto alle premesse. Di loro mi ha interessato il fatto che si opponevano (lo dicono chiaramente nell’intervista) a ciò che io chiamo estetizzazione, al fatto che ci sia questo consumismo spinto nel vestire, questa invadenza della moda. È un’opposizione che si esprime attraverso la scelta del velo: un’opposizione al loro mondo. Naturalmente è qualcosa che può essere letto come una rivolta tipicamente adolescenziale, ma è anche qualcosa di più di questo: è l’opposizione all’estetizzazione dei rapporti, al fatto che i maschi abbiano una certa idea della donna, eccetera.
Certo, tutto questo all’interno di un femminismo molto tra virgolette. Credo però che bisognerebbe intervenire in queste situazioni; non bisognerebbe creare una specie di cordone sanitario, come poi è stato fatto imponendo per legge che a scuola non si possa andare con il velo. Una tipica soluzione normativa: si fa una legge e così si evita di intervenire nelle situazioni spinose. Occorrerebbe, invece, che nelle scuole gli insegnanti si occupassero, caso per caso, di cosa c’è dietro il fatto che una giovane indossi il velo. Dietro, infatti, ci possono essere le cose più diverse. Ci può essere la famiglia che impone il velo, e allora bisogna reagire. Ma c’è anche la possibilità che queste ragazze stiano cercando una loro strada. Una legge cancella queste differenze: è l’esempio di un universalismo astratto, che non tiene conto dell’ibridazione culturale e della varietà di situazioni che l’ibridazione comporta.

Perché il concetto di globalizzazione è inadatto a descrivere il mondo contemporaneo
Perché è un concetto sostanzialmente economico, e se parliamo solo di tecnica e di economia, non riusciamo a comprendere il mondo contemporaneo. Quello che la globalizzazione ci fa vedere è l’immagine che ha di sé l’Occidente, e forse l’immagine che l’Occidente vorrebbe imporre al mondo. Così non abbiamo una percezione realistica di quello che sta avvenendo. L’ibridazione culturale è un concetto più adeguato: la globalizzazione è una semplice tendenza all’interno del quadro più ampio dato dall’ibridazione. Si potrebbe dire che la globalizzazione è un concetto superficiale: lo si vede anche dall’inflazione che il termine subisce, tanto che, a furia di usarlo, non si sa nemmeno bene cosa voglia dire. Per alcuni globalizzazione significa semplicemente omologazione: ma non c’è una vera omologazione delle culture. Anche il fatto che dappertutto si beve la coca-cola non vuol dire che la si beva dappertutto allo stesso modo. A parte il fatto che c’è anche una reazione alla coca-cola: ho letto qualche tempo fa di una bibita di stampo islamico di nuova produzione, che pare sia in vendita a Parigi, una sorta di coca-cola antistatunitense. Se l’idea di globalizzazione è l’idea dell’omologazione delle culture, o l’idea dell’occidentalizzazione del mondo, mi sembra che non funzioni per niente. Se ci fosse stata la completa occidentalizzazione, non si potrebbe spiegare nemmeno l’11 settembre.
Se invece globalizzazione significa: ci sono i mercati finanziari che, grazie alla tecnica (cioè alla comunicazione in ‟tempo reale”), sono ubiquitari, questo è vero. Ma non è tutto: perché ci sono le culture, c’è un passato arcaico-tradizionale che non passa. C’è una situazione molto più frastagliata e articolata di quella che il concetto di globalizzazione riesca a descrivere.


Questo è il testo integrale di una conversazione registrata, in un caffè di Parigi, il 20 agosto 2005. Sue versioni abbreviate, differenti tra loro, a cura di Michela Passini, sono apparse sul ‟Giornale di Brescia” del 25.9.2005 e su ‟Aprile”, settembre 2005.

Convivenze difficili di Rino Genovese

La tesi del libro è che il concetto di globalizzazione metta in luce tutt’al più gli aspetti dell’unificazione economico-finanziaria e tecnica del mondo contemporaneo, ma sfugga alle questioni di fondo: che sono poi quelle dei rapporti tra le diverse culture, della loro coesistenza insieme necessar…