Marina Forti: Per il Pakistan il peggio è in arrivo
04 Novembre 2005
Per la popolazione terremotata del Pakistan, il peggio comincia ora: l'emergenza non è finita. Mercoledì a Ginevra una conferenza dei paesi occidentali per l'emergenza pakistana (‟conferenza dei donatori”), riunita dall'Onu, si è conclusa con grandi promesse e poca sostanza. L'Onu ha raccolto 580 milioni di dollari in promesse - di cui quasi la metà dalla Banca islamica di sviluppo (Idb), 25 milioni offerti dalla vicina India, 50 milioni dagli Usa (oltre ai 50 già promessi, e circa altrettanti spesi dall'esercito Usa per le operazioni di soccorso di questi giorni), altri 50 milioni di dollari dall'Ue. Sembra un bel gruzzolo. Ma è un'apparenza, perché si tratta per la quasi totalità di denaro promesso nel prossimo anno e destinato per lo più alla ricostruzione di case ed edifici (a finanziare palazzinari?). Nell'immediato solo 15,8 milioni di dollari sono arrivati: il 20% di quanto chiesto dall'ufficio dell'Onu per gli affari umanitari. ‟Da Ginevra con poco amore”, titolava ieri ‟The News”, un quotidiano di Islamabad. Il Pakistan sta già affrontando i problemi del ‟dopo”: le relazioni con la vicina India (apriranno finalmente i varchi lungo la frontiera di fatto in Kashmir di cui i due governi discutono da giorni, perché le famiglie divise tra il territorio pakistano e quello indiano possano aiutarsi?). E i piani per la ricostruzione: tra le proteste dell'opposizione, il presidente Parvez Musharraf ha affidato a due generali il comando della Commissione federale per i soccorsi e poi della Commissione per la ricostruzione creata tre giorni fa: tutto, dai soccorsi immediati ai futuri appalti, è in mano ai militari.
Il ‟dopo” però comincia mentre l'emergenza continua. Tutti sanno bene che tra meno di un mese queste vallate si copriranno di neve: i villaggi più in alto resteranno isolati fino al disgelo. Restano dunque quattro settimane di tempo per far arrivare l'essenziale ai sopravvissuti: tende invernali in primo luogo, cibo, e cure mediche. Il terremoto ha ucciso 53mila persone in Pakistan e nel Kashmir pakistano, secondo un conteggio destinato forse a salire. Ma è per i vivi che si prepara il peggio. Il governo pakistano conta 75mila feriti gravi, di cui molti resteranno invalidi. Ma non è tutto: 3,3 milioni di persone non hanno più un tetto, 1,3 milioni non hanno più la terra o l'attività di cui vivevano. Il sisma ha sbriciolato edifici pubblici e ospedali; intere amministrazioni locali sono scomparse, insegnanti e medici decimati, 600mila bambini sopravvissuti ora non hanno una scuola.
Questa è la sfida. La logistica dei soccorsi è difficile. ‟La natura del terreno e la meteo sono i due incubi”, dice il coordinatore dell'Onu per le operazioni umanitarie in Pakistan, Jan Vandermoortele. Muzaffarabad, capitale del Kashmir sotto controllo pakistano, è (era) una città di circa 400mila abitanti alla confluenza di due fiumi, il Neelum e il Jelhum: le strade che risalgono le due valli sono bloccate da frane gigantesche, interi costoni di montagna hanno travolto tutto. Così nella vicina valle di Kaghan, in territorio pakistano: la strada raggiunge la cittadina di Balakot ora rasa al suolo, all'imboccatura della valle, ma poi si interrompe. L'esercito pakistano sta cercando di aprire dei passaggi con le ruspe: ma nuove frane cadono con ogni nuova scossa (il disboscamento selvaggio dei decenni passati, che ha denudato i pendii, non aiuta). Da queste due città gli elicotteri fanno la spola con le località isolate: ma a volte il terreno non permette di posarsi. In qualche caso i soccorritori hanno usato barche per risalire le valli, dove i fiumi permettono. Altrimenti restano i convogli di soldati e muli. I medici volontari che in questi giorni raggiungono (a piedi) località isolate trovano ferite non curate e ormai infette, principi di cancrena, polmoniti. ‟Le strade bloccate, la neve, la mancanza di tende e la mancanza di fondi stanno creando una trappola mortale per chi è sopravvissuto al sisma”, dice un comunicato del Programma alimentare mondiale.
Il ‟dopo” però comincia mentre l'emergenza continua. Tutti sanno bene che tra meno di un mese queste vallate si copriranno di neve: i villaggi più in alto resteranno isolati fino al disgelo. Restano dunque quattro settimane di tempo per far arrivare l'essenziale ai sopravvissuti: tende invernali in primo luogo, cibo, e cure mediche. Il terremoto ha ucciso 53mila persone in Pakistan e nel Kashmir pakistano, secondo un conteggio destinato forse a salire. Ma è per i vivi che si prepara il peggio. Il governo pakistano conta 75mila feriti gravi, di cui molti resteranno invalidi. Ma non è tutto: 3,3 milioni di persone non hanno più un tetto, 1,3 milioni non hanno più la terra o l'attività di cui vivevano. Il sisma ha sbriciolato edifici pubblici e ospedali; intere amministrazioni locali sono scomparse, insegnanti e medici decimati, 600mila bambini sopravvissuti ora non hanno una scuola.
Questa è la sfida. La logistica dei soccorsi è difficile. ‟La natura del terreno e la meteo sono i due incubi”, dice il coordinatore dell'Onu per le operazioni umanitarie in Pakistan, Jan Vandermoortele. Muzaffarabad, capitale del Kashmir sotto controllo pakistano, è (era) una città di circa 400mila abitanti alla confluenza di due fiumi, il Neelum e il Jelhum: le strade che risalgono le due valli sono bloccate da frane gigantesche, interi costoni di montagna hanno travolto tutto. Così nella vicina valle di Kaghan, in territorio pakistano: la strada raggiunge la cittadina di Balakot ora rasa al suolo, all'imboccatura della valle, ma poi si interrompe. L'esercito pakistano sta cercando di aprire dei passaggi con le ruspe: ma nuove frane cadono con ogni nuova scossa (il disboscamento selvaggio dei decenni passati, che ha denudato i pendii, non aiuta). Da queste due città gli elicotteri fanno la spola con le località isolate: ma a volte il terreno non permette di posarsi. In qualche caso i soccorritori hanno usato barche per risalire le valli, dove i fiumi permettono. Altrimenti restano i convogli di soldati e muli. I medici volontari che in questi giorni raggiungono (a piedi) località isolate trovano ferite non curate e ormai infette, principi di cancrena, polmoniti. ‟Le strade bloccate, la neve, la mancanza di tende e la mancanza di fondi stanno creando una trappola mortale per chi è sopravvissuto al sisma”, dice un comunicato del Programma alimentare mondiale.
Marina Forti
Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …