Paola Tavella: Vi diamo soprannomi perché siamo galanti

12 Gennaio 2005
Da qualche anno baso la vita affettiva sull'assunto, comprovato dai fatti e da autorevoli serie televisive, che le mie amiche sono le anime gemelle da vedere nel weekend, mentre gli uomini sono carissimi ragazzi, ottimi nei giorni feriali e la domenica sera. Con le anime gemelle frequentiamo molto volentieri, all'ora di pranzo festiva, i ristoranti del centro, magari dopo aver passeggiato nei parchi della Capitale anche quando fa freddo o piove. Ecco come mai siamo state viste entrare una domenica al roof garden di un albergo con un sacchetto di plastica in testa: a villa Borghese pioveva, urgeva un riparo, non potevamo rovinarci la messa in piega perche la sera avevamo un appuntamento. Dopo aver letto e commentato i giornali ed esserci aggiornate a vicenda su quel che pensiamo del mondo e su quanto siamo contente di esserci incontrate, le mie amiche e io parliamo talvolta dei maschi a vantaggio dei quali indossiamo sacchetti. Riteniamo, però, che non sia il caso di chiamarli per nome, e men che meno per cognome. A Roma tutti conoscono tutti, e in alcuni casi sono anche appostati nel separé a fianco. Poi nelle leggende orientali il suono e il nome materializzano gli oggetti, e addirittura i soggetti. Nel mio caso potrebbe essere che dicendo appena "Giacomo"
mentre chiacchiero con un'anima gemella al brunch greco di vicolo De' Renzi (cuoco Dimitri: si vorrebbe prima dargli un soprannome) il Giacomo in questione si materializzi, indesiderato, sulla porta del locale mentre sono indifesa, raffreddata e senza trucco.
Sul nome del fresco fidanzato (finché sono i primi tempi, finché la storia non è solida, finché il soggetto non viene frequentato dagli amici) o dell'amante, dunque, da ragazza avveduta pongo un tabù temporaneo secondo la lezione dei popoli che indicano la tigre come la mangiatrice di uomini, il serpente la bestia che striscia, l'orso il divoratore di miele. L'etnologo Robert K. Nelson si è fatto dire le ragioni ultime da un koyukon dell'Alaska meridionale: "Se chiami un animale per nome, chiami anche la sua anima e questo è pericoloso. Perciò alcuni nomi di animale sono hutlanee (tabù), soprattutto per le donne". Fedeli alla linea koyukon, adoperiamo soprannomi per indicare i nostri amici più cari e renderli meno insidiosi. Gli etnologi ci hanno spiegato a che serve il brand naming, Giustiniano chiarisce su che criteri crearlo: Nomina sunt consequentia rerum, scriveva per evitare ai posteri confusioni e perdite di tempo. Se infatti una delle due/tre/quattro di noi comincia un discorso con "L'altra sera Marco", un'altra invariabilmente chiederà: "Marco chi?". Sono equivoci che si creano nella giungla contemporanea, nella quale una ragazza per saggezza, virtù o per via della volatilità maschile non ha mai, o quasi, un solo adoratore, ma piuttosto "corteggiatori coordinati continuativi", altrimenti detti "co.co.co".
Il nickname può indicare l'età se è degna di nota, ecco perché abbiamo avuto Il Ventenne, oppure modi inusuali di porsi: Romanzo d'amore faceva dichiarazioni ottocentesche e poi scompariva per tre mesi. Esistono nickname che si commentano da sé, per esempio Il Gladiatore. E ci sono le nazionalità pregiate, Jamaica e Senegal, o le fisse imbarazzanti che guadagnarono a un tizio l’insolito appellativo di Veglia di Preghiera. Il nick sintetizza anche in una parola perché si frequenta Il Rugbista, non si vuol perdere Lo Scalatore, si è rotto con Rafting, è meglio non ingelosire Il Boxeur, si ha vergogna del Laziale. Può significare la spinosità del soggetto: L'Alieno, Il Nerd, Mister Fantasy, Il Pazzo, L'Ossessivo, Il Calciatore Bastardo, e chi ha soprannomi così nel suo carnet è autorizzata dalle amiche a lamentarsi quasi tutti i giorni. Il nicknaming non è un gioco di società né un trucco di perfidia femminile. È invece una dura necessità imposta dalla nuova distribuzione di ruoli e potere fra i generi.
Le donne non solo hanno sulle spalle tutto quello che avevano prima di essere libere, ma anche responsabilità economiche/sociali/politiche e la disperata incombenza di tenere tutto insieme per non andare (letteralmente) a pezzi. Sono impegnatissime, spesso scorbutiche e spicce, soprattutto non hanno tempo. Gli uomini, invece, fanno quello che hanno sempre fatto, e spesso qualche cosa di meno perché le signore si sono impossessate di varie incombenze con o senza il loro consenso. E se i maschi dispongono di tempo da perdere nel trasformarsi negli oggetti del desiderio del millennio, le signore si ritrovano invece a essere i nuovi trovatori. Così come nell'amor cortese il poeta non nominava la dama del suo cuore per segnalarne la distanza e perché era invariabilmente sposata a un qualche re vendicativo e sanguinario, così oggi le donne non chiamano per nome i loro amanti per riconoscere, gestire e significare la asimmetria fra sé e loro; e così inventano una nuova galanteria femminile.

Paola Tavella

Paola Tavella, genovese, giornalista e scrittrice, ha lavorato al “Lavoro” e a “il manifesto” e collabora con radio, televisione, agenzie di pubblicità e riviste, fra cui “Noidonne” e “Amica”. Con …