Gad Lerner: Lapo, la dinastia e le regole aziendali
24 Novembre 2005
L’articolo che segue è scritto da uno che si è sempre rifiutato di comprare un’automobile che non fosse italiana, provando un legame di conoscenza e solidarietà speciale con i lavoratori e i manager che le producono: ho trascorso molti anni felici dapprima indagando la condizione operaia alla Fiat, poi lavorando a ‟La Stampa” di Torino. Per questo mi ha fatto un’impressione particolare la prima pagina del giornale di proprietà della Fiat che martedì 11 ottobre pubblicava contemporaneamente, ma ben separate fra loro, due notizie: il venticinquesimo anniversario della ‟marcia dei quarantamila” con cui l’azienda vinse nel 1980 le resistenze sindacali e avviò una ristrutturazione durissima decine di migliaia di dipendenti espulsi dalla produzione per risolvere la sua crisi; e poi, più in basso, il coma da overdose in cui era precipitato un uomo di 28 anni (a quell’età vogliamo smetterla di chiamarli ragazzi, per favore?) che di mestiere fa il responsabile della promozione dei marchi Fiat, un nipote del defunto avvocato Agnelli, di nome Lapo Elkann. Sulla sua vicenda privata, sulle sue scelte di persona adulta, non ho mezza parola di commento da spendere. Sono antiproibizionista sia in materia di droghe che di prostituzione. Del resto l’insuccesso delle politiche proibizioniste è sotto gli occhi di tutti. A Lapo Elkann dunque solo auguri di rapida guarigione e di felicità. Ma io penso alla Fiat, a questa azienda il cui destino lungo un secolo si è identificato con l’economia, la società, la politica italiana. Che 25 anni fa per sopravvivere chiese prima a ventottomila, poi ancora ad altri trentamila dei suoi operai: per favore, vai a cercare lavoro altrove, non ho più bisogno di te. E nella crisi del 1993 mandò a casa, triste nemesi storica, migliaia di quegli stessi ‟colletti bianchi” che marciando per le vie di Torino contro i sindacati le avevano garantito la vittoria del 1980. Come è noto la Fiat sta uscendo da un’altra crisi, stavolta drammatica al punto di metterne in forse la sopravvivenza. Mi capitò di scrivere l’anno scorso, in questa rubrica, che tali difficoltà non si superavano certo con le felpe di Lapo Elkann. Lui telefonò subito: ‟Per favore, vediamoci a pranzo”. Nel ristorante chiese un blocnotes e una penna al cameriere: ‟Ora devi darmi dei consigli sul mio lavoro, e io prendo appunti”. Fu imbarazzante, anche perché in definitiva il mio consiglio era uno solo: ‟Evita di metterti in mostra. Dimostra a te stesso e agli altri che vuoi imparare il mestiere del manager, e non sei in quel posto di comando da inesperto solo perché appartieni alla famiglia proprietaria. Niente foto, niente tv, tanto non saranno la tua faccia o il tuo entusiasmo a far vendere una sola auto Fiat in più”. Parole al vento, naturalmente. Quel giovane uomo era già in preda a un attivismo solipsistico. Fargliene una colpa sarebbe ingeneroso, visto che agiva evidentemente a briglia sciolta, senza alcun filtro o controllo. La vera domanda era e resta: perché l’azienda lo lasciava fare? Possibile che al Lingotto, nel corso degli innumerevoli avvicendamenti di manager, si sia perso quel senso drammatico della leadership industriale che pure aveva contraddistinto i tempi della lotta di classe e delle ristrutturazioni più traumatiche? Forse pensavano cinicamente: diamo un contentino di visibilità alla ‟famiglia”, cosa volete che costi mettere in mostra un Agnelli? Ma la Fiat non è un’azienda qualunque. Anche lì, sia ben chiaro, il moralismo di facciata ha sempre convissuto con la spregiudicatezza di chi sapeva di godere di un’impunità garantita: è il vizio più consueto di ogni dinastia. Se lo poteva permettere un’altra Fiat, che oggi per fortuna non c’è più: l’azienda di per sé identificata con il potere. Ridimensionata a uno stato di laicità, e soprattutto ridimensionato il ruolo non più propulsivo della famiglia Agnelli al suo interno, speriamo la Fiat sappia recuperare il necessario rigore nella risoluzione di questa sgradevole vicenda: separando definitivamente le vicende private e ‟familiari” dalle regole aziendali, come si farebbe con qualsiasi altro dipendente dal cognome meno impegnativo. Mi sembra l’unico modo serio di prendere le distanze dagli avvoltoi massmediatici che si aggirano intorno al destino di Lapo Elkann.
Gad Lerner
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate …