Massimo Mucchetti: Privatizzazioni al palo. Una sfida da giocare per la cultura liberista

12 Dicembre 2005
Privatizzare è l’imperativo categorico del mondo accademico, professionale e finanziario di formazione anglosassone. Non lo è per la politica, che si è rassegnata a cedere beni dello Stato allo scopo di ridurre il debito pubblico (quando è il Tesoro a vendere) o per finanziare il deficit annuale (quando al Tesoro arrivano i dividendi delle società controllate che vendono). La contrapposizione si alimenta di opposte letture dell’interesse generale, ma anche di ragioni meno alte: la conservazione del potere e delle clientele da parte della politica; l’acquisizione di commissioni e consulenze da parte dell’altro fronte. Alla vigilia di una campagna elettorale che si vorrebbe impegnata su un riformismo misurabile e non su fumose promesse onnicomprensive, converrebbe specialmente alla cultura liberale e liberista, quasi sempre ridotta al ruolo di grillo parlante in entrambi gli schieramenti dediti alla realpolitik, spiegare perché e che cosa si debba privatizzare, qui e ora. Privatizzare, infatti, non è un precetto europeo ma una scelta nazionale. La Ue tutela la concorrenza, e dunque interviene qualora le imprese ricevano dagli Stati aiuti tali da distorcerla. Non si cura, invece, della proprietà pubblica o privata delle imprese medesime. Vendere i beni pubblici aveva una sua spettacolare convenienza quando i tassi d’interesse erano alti e i profitti delle Partecipazioni statali modesti. Con un debito pubblico che nel 2004 è costato il 2,66%, la convenienza finanziaria sfuma. Dalla mera cessione del 20% dell’Eni lo Stato incasserebbe 18 miliardi, che, una volta detratti dal debito pubblico, gli farebbero risparmiare 480 milioni di interessi, ma dovrebbe rinunciare a dividendi per 660 milioni. Ci vorrebbe un aumento di un punto dei tassi per avere un saldo nullo tra interessi risparmiati e dividendi venuti meno. Poiché la Bce ha aumentato il tasso di riferimento di un quarto di punto, si dovrà decidere in base alle previsioni. E senza dimenticare che non serve realizzare il patrimonio se non si ferma il deficit corrente. Ma privatizzare vuol anche dire cambiare il padrone di Eni, Enel, Finmeccanica e via elencando. E’ saggio farlo quando il vecchio non sia in grado di scegliere bene il management e di assicurargli stabilità, rispetto e, quando servano, i mezzi per lo sviluppo. Tra il 1970 e il 1992, lo Stato si è rivelato un azionista spesso meritevole di essere licenziato. Nei trent’anni precedenti, invece, si era guadagnato un plauso e negli ultimi 15 un giudizio più contrastato: ancora un plauso per aver nominato manager di solito bravi e talvolta capaci di un pensiero strategico (Eni, Finmeccanica); una riserva, per aver sfruttato le posizioni di monopolio come un privato perseguendo il profitto (Eni ed Enel) o galleggiando (Rai); una condanna per insipienza (Alitalia). Lo Stato non è il migliore dei padroni possibili. Ma non tutti i privati portano alle imprese la stessa dote. Chi compra a debito un ex monopolio, per esempio, conta di ripagare i creditori con il cash flow irrobustito dai risparmi fiscali, e dunque finisce per destinare la maggior parte del valore aggiunto alla remunerazione del capitale investito anziché agli investimenti e, non avendo alternative, «deve» difendere con i denti le posizioni dominanti sul mercato interno. Non tutti i privati, d’altra parte, garantiscono l’italianità delle imprese privatizzande, e cioè la salvaguardia in loco dei lavori più pregiati. La politica delle privatizzazioni risulterà tanto più convincente se, nell’Italia reale, che è quella delle fondazioni bancarie e dei capitalisti senza capitale e non l’Italia immaginaria dei fondi pensione di là da venire, saprà dare risposte più chiare dalla comoda delega di ogni responsabilità alla «mano invisibile» del mercato. (con la consulenza tecnica di Miraquota)

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …