Vittorio Zucconi: In nome del boia
Se una spiegazione, e non una giustificazione, può essere avanzata per l´accanimento americano, questa è nella natura della loro democrazia, così profondamente diversa dalle democrazie europee. In una situazione di democrazia diretta, nella quale il rapporto fra eletti ed elettori è assai più immediato di quanto sia accaduto, fino a ora, in Italia se gli umori dei cittadini sono favorevoli al patibolo, i loro rappresentanti non avranno molta scelta. Possono, come molti di loro sono in privato, essere inorriditi. Ma ben pochi, e certamente non una figura vuota e rigonfia soltanto di miti hollywoodiani come Arnold ‟the Governator” Schwarzenegger, avranno il coraggio suicida di opporsi, come fece Mario Cuomo a New York, finendo poi sconfitto.
L´ingranaggio della reciproca manipolazione emotiva, tra politici che, come Bush o Clinton, eccitano la giusta collera della gente di fronte ai grandi delitti per sfruttarla elettoralmente e il pubblico che rimbalza su di loro la propria rabbia, costruisce un congegno di morte speculare e implacabile. Non importa neppure che tutti, governanti e governati, sentano l´orrore di quel che fanno, che inventino sistemi di uccisione sempre più ‟umani”, come questa eutanasia legalizzata con le flebo di veleni. L´esito deve comunque essere la soppressione fisica del demonio, del ‟maligno”, incarnato dal condannato, come nella Salem dei Puritani e delle povere streghe impiccate per esorcizzare Satana.
Ma più si tenta di ammorbidire la forma, più dura e chiara diviene la sostanza, anche senza gli atroci farfugliamenti di secondini costretti a trasformarsi in infermieri a San Quintino. L´avvocato e scrittore Scott Thurow, che partecipò ai lavori di una speciale commissione a Chicago per studiare riforme all´applicazione della capitale, concluse in un saggio che la pena di morte non può essere né migliorata né applicata in maniera più giusta, perché essa è il prodotto perfetto di un sistema giudiziario imperfetto e dunque va abolita. Accorciare i tempi dell´esecuzione accrescerebbe in maniera esponenziale gli errori giudiziari, dimostrati da quei 122 condannati a morte liberati in questi anni, su 3.000 in attesa, perché innocenti.
Concedere più spazio per appelli e ricorsi, al contrario, porta al mostruoso paradosso di ‟Tookie” Williams, un uomo che è stato condannato due volte. Prima a 24 anni di carcere, praticamente un ergastolo, e poi all´esecuzione.
Naturalmente, la chiave della democrazia diretta non ci aiuta a capire perché due terzi degli americani, e la grande maggioranza di coloro che si proclamano devotissimi cristiani, come George Bush, continuino a credere nel supplizio, né ci spiega perché ‟the Governator” abbia giustificato il rifiuto di grazia con il mancato pentimento del plurinominato al Nobel per la Pace. È ovvio che un condannato che si consideri innocente non possa mai chiedere né perdono alle vittime né pietà al sovrano, senza così negare proprio ciò che afferma, l´innocenza e quindi autorizzare la propria esecuzione. ‟Tookie” era intrappolato in una contraddizione micidiale.
Resta soltanto una sola constatazione fattuale che il cronista depresso da troppi anni e troppi spettacoli grandguignoleschi possa offrire. Il ritmo delle esecuzioni è diminuito, marcatamente da quando George Bush ha lasciato il Texas nel 2001 per Washington. Il numero di condanne capitali è sceso, ora che giurie hanno l´alternativa del carcere a vita senza sconti. Un politico di grandi ambizioni, Tim Kaine, ha vinto le elezioni in Virginia, stato di molte esecuzioni, proclamandosi apertamente contro la forca. E i ‟morti che camminano” sono diminuiti. È lecito dunque sperare che, come nel caso di Scott Thurow, la natura migliore di questa nazione, il suo vantato ‟pragmatismo”, si scuota dall´incantesimo del taglione. E riscopra che la forca, prima di essere una barbarie indegna di una nazione civile, è una abominevole inutilità.