Giorgio Bocca: Il mio rito antico del pranzo di Natale

27 Dicembre 2005
I Natali di una vita. Uno lo passai da mia figlia a San Fereolo, nelle Langhe di Dogliani, in vista delle campagne di Luigi Einaudi, il professore presidente della Repubblica, mandato dai genitori in collegio a Savona dagli scolopi, per me primo servizio da inviato alla ‟Gazzetta del popolo” di Torino, le gambe che mi tremavano dalla emozione quando il tipografo stese sul tavolo il foglio umido della bozza e vidi subito cosa ci stava stampato, che a Dogliani Einaudi ‟vi dodicegiunsenne” invece che ‟vi giunse dodicenne” e non ebbi il coraggio di dirlo al correttore; uscì proprio così e finì per sembrarmi meglio che corretto, un segno propizio. Da queste parti raccontano ancora una storia su Einaudi magari inventata ma che alla mia micragnosità piemontese piace molto. Il presidente a cui il mezzadro chiede se può vendergli un vecchio cappello bucato e poiché in Langa non si regala niente, il presidente ci pensa e dice, ‟va bene, te lo do per cinque lire”. Poi va a Roma per qualche mese e il mezzadro fa aggiustare i buchi nel cappello. Arriva l’estate i due si rivedono. ‟Che bel cappello hai, me lo vendi?”, dice il presidente. ‟Ma è quello che mi ha venduto lei”. ‟Ma il mio aveva dei buchi”. ‟Li ho fatti aggiustare ho speso due lire”. ‟Allora facciamo così, tu mi vendi il cappello io ti restituisco le cinque lire, meno tre per l’uso, più due per l’aggiustatura dei buchi, fanno quattro lire”. Me lo ricordo bene quel Natale perché finalmente era pronta la casa per mia figlia, una grande casa scombinata, con scale ripide e gradini alti e sdrucciolevoli di pietra. San Fereolo o Fereol o Frieul: un martire lionese arrivato chi sa come nelle Langhe. Me lo ricordo quel Natale per la bagna del Pauvrehomme, da cui si può capire che cosa siano per noi piemontesi i cibi dei poveri. Don Conterno, il parroco di Dogliani, aveva allora settanta anni, largo di spalle, forte di naso, dolce di occhi. Avevo letto una sua storia di Dogliani, il meglio per fantasticare prima di prendere sonno. Dogliani fondata da un Duilius romano o forse chiamata così dalla voce celtica dol, terra lungo il fiume, il mondo meraviglioso degli etimi che riescono a penetrare nel passato, e anche la capacità di inventarla la storia come sapeva fare don Conterno che aveva fantasia e la raccontava come un fatto compiuto. Per dire che Annibale era entrato in Italia dal Col Maurin nella val Maira e non dal Piccolo San Bernardo lui prendeva il tono confidenziale: ‟Ha in mente quel passo di Polibio” e gli vennero incontro con rami di ulivo”. Ora lei lo sa meglio di me che la linea degli ulivi si ferma nella valle del Ubaye, sotto il Col Maurin”. Non lo sapevo ma feci cenno di sì. Ma non era solo Annibale che in quel Natale di Langa girava per la testa forte di naso e dolce di occhi di don Conterno, girava qualcosa che gli era venuta in mente sentendo gli odori di cucina. ‟Dai giorni della mia giovinezza diceva, mi sono rimasti due gusti che per me sono il massimo, bagnare il pane nel vino e la bagna del pauvrehomme”. ‟Cula bianca o cula rusa”, chiese la moglie di un invitato langhetto. Don Conterno la mise alla prova. ‟Lei come la fa la rossa?”. ‟Verso un po’di olio nella padella, taglio le cipolle sottili sottili, tengo il fuoco basso fin che non si colori, poi aggiungo un po’di salsa di pomodoro”. Don Conterno la ascoltava rapito come se avesse trovato un manoscritto di Manfredi Lancia marchese di Busca e di Dogliani capo dei ghibellini dell’alta Italia che aveva dato sua figlia Bianca in sposa a Federico II "stupor mundi", come sa chi ha letto la sua storia. Ed io lo capivo perché ognuno di noi della provincia povera ha un suo cibo magico, bagna rossa o cauda o merluzzo alla "branda i cujun" alla moda del Col di Mava, in val Tanaro, da dove arrivava don Conterno che tornava a casa dal seminario e suo padre contadino gli diceva ‟tu è meglio che studi da prete perché in campagna fai solo danni”. Era un Natale di neve e di sole. Uscimmo dopo il pranzo a fare due passi per la collina. Su questa di San Fereolo, l’armata d’Italia di Napoleone scalcagnata e irresistibile aveva messo un deposito di munizioni nella cappella ortogonale. Nella vigna si trovano ancora monete francesi, c’era qui una postazione degli austro-piemontesi, i soldati della Republique vennero su per la collina al grido ‟en avant, en avant”. Di tutte le cose feroci e meravigliose fatte da Napoleone qui si ricorda solo cosa mangiò, scendendo da Mondovì la valle del Tanaro. A Cervere mangiò una frittata di porri, a Marengo il famoso pollo. La sera della battaglia apparecchiarono il suo tavolino da campo davanti alla tenda e il cuoco gli servì quel che aveva trovato sul posto: pollo, funghi e gamberi di fiume. Prima del Natale di don Conterno e di mia figlia Nicoletta c’erano stati i molti Natali nella città di Cuneo, i Natali familiari in casa nostra e delle due zie, Ines e Clelia. Stavano le tre famiglie nello spazio di trecento metri, zia Ines in via XX Settembre, noi e zia Clelia appena svoltati, in via Cavallotti. Nessuna delle tre famiglie aveva il telefono, nessuna il bagno, ci si salutava dai balconi e a Natale nessuna sorpresa nei menù sempre identici, cotechino e spinaci di antipasto, ravioli in brodo, pollo, e per dolce la macedonia con banana e datteri, e dopo il caffè il torrone nero di cioccolato, arrivato dall’Aquila, da zio Mimmino, fratello di zio Valentino marito di zia Ines. ‟Quest’anno tocca a zia Clelia”, annunciava mia madre e io sapevo che il mio posto a tavola sarebbe stato sotto l’arazzo del Ponte dei sospiri. Mentre da zia Ines ero di fronte al modellino rosa e trasparente della torre di Pisa, al cui lato zio Valentino teneva il suo elmo del Nizza cavalleria, enorme, dorato e rilucente. Sempre uguali anche i discorsi di noi che parlavamo in dialetto e i silenzi di mio padre professore, che era l’unico a non parlare in piemontese anche se arrivava da Biella. Zio Valentino era un appassionato di Verdi, e odiava Wagner che invece piaceva moltissimo a zio Riccardo che stava a Torino, aveva un monte dei pegni in via Garibaldi e una sorella sciantosa che nei giorni dell’Esposizione andammo a vedere sul palco al Valentino. Di zio Valentino avevo paura, amavo zio Mario che, come quasi tutti a Cuneo, era andato in Argentina a cercar fortuna e avendo trovato soltanto lavoro duro, era subito tornato in Italia alle partite di bocce e ai mezzi litri della Bocciofila sul viale degli Angeli. Ma dell’Argentina, da cui presto era fuggito, aveva conservato un ricordo di terra dei miracoli. Di qualsiasi cosa si parlasse, della nostre povere faccende provinciali, lui faceva il contrappunto. Si parlava della nuova filovia che saliva dalla vecchia stazione a piazza Vittorio e lui: ‟A Buenos Aires invece del biglietto ti danno un nastro, con tutte le fermate e i prezzi. Paghi e scendi senza perdere tempo”. Era impiegato alla Stipel dei telefoni ma, se di telefoni si parlava, lui diceva subito: ‟In Argentina per fare una telefonata...”. Io lo guardavo con amore, mio padre con noia mal dissimulata. Zio Mario era l’unico antifascista della famiglia ma mussolinano, e non per ragioni politiche ma estetiche: ‟Quel Ciano con i suoi piedi piatti! Il Duce almeno è un bell’uomo”. Se ci penso, capisco meglio Berlusconi. Non avevano una lira in banca quei miei familiari ma avevano il terrore dei comunisti, mio padre che faceva il professore a Savigliano, dove c’erano le fabbriche della Fiat ferrovie, anche dopo la Liberazione si sentiva minacciato dai comunisti. Aspettavo con impazienza la fine del pranzo di Natale che gli zii mi dessero il loro regalo, sempre quello, graditissimo, le cinque lire d’argento. E via di corsa con gli sci da fondo, sulla neve dell’altopiano ancora gelata e scintillante a metà giorno, per tuffarmi dopo San Rocco giù per le ripe della Stura, già in ombra. La paura del comunismo, a comunismo morto, è rimasta: allora come ora la borghesia ha coscienza dei privilegi suoi e ha paura di perderli. Poi vennero i Natali partigiani, primi Natali diversi, sempre con il "bambin Gesù" ma senza parenti. Il primo ai Damiani in val Grana. Ci svegliò il suono delle campane che giungeva attraversando la valle dalla chiesetta di Frise, la nostra prima sede. Il parroco contadino non ci ha dimenticato, viene a celebrar la Messa nella scuola. Abbiamo tolto i banchi, appoggiato un tavolo alla parete come altare, una decorazione di rami di pino circonda il Crocefisso, le candele sull’altare le abbiamo infisse sui manici lunghi di due bombe a mano tedesche. Noi siamo in prima fila insieme ai due prigionieri inglesi fuggiti dal campo di Mondovì, sono due inglesi poveri che di inglese hanno solo gli occhi azzurri, le loro case sono lontane come i loro parenti. ‟Oremus”, dice il nostro prete. Dietro le spalle mi giunge una risata, sono le ragazze del paese, forse ridono di Dino che servendo la messa è inciampato. Dopo la messa, in attesa del pranzo ci sediamo sul balcone di legno della nostra grangia. Dal basso arrivano quattro o cinque esplosioni. Sapremo l’indomani che sono stati quelli di Galimberti di San Matteo, sono scesi a Caraglio e hanno fatto saltare con la dinamite due carri armati abbandonati dalla IV Armata. Dei Natali "tutti d’oro" della Rinascente a Milano dopo la guerra ricordo solo i brain trust, le riunioni di cervelli a cui ci invitava Morello, ideologo del mercato. Dovevamo suggerire al grande magazzino gli slogan per le vendite natalizie. Si parlò di una birra e uno di noi propose: ‟Ricordatevi che non è piscio”. Ci diedero anche un gettone d’oro per la collaborazione.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …