Guido Piccoli: Il buco nero dell'America latina

12 Gennaio 2006
Mentre il resto del continente vive un fermento contagioso che sembra allontanare gli Stati uniti dal suo ‟cortile di casa”, la Colombia appare isolata, paralizzata e condannata, chissà per quanto ancora, ad una crescente rovina. A cinque mesi dalle elezioni pochi credono o s'illudono che Alvaro Uribe non ottenga il suo secondo mandato. Non tanto perché si dia credito ai sondaggi più che interessati, che continuano ad attribuirgli una popolarità straordinaria (ma anche straordinariamente evaporata in occasione del referendum dell'ottobre 2004), ma piuttosto per la modestia degli avversari: sia di quelli liberali, identificati col sistema di potere, come l'ex presidente Cesar Gaviria o l'ex ministro degli interni, Horacio Serpa, sia degli outsider, come l'ex capo guerrigliero Antonio Navarro o l'ex giudice costituzionale Carlos Gaviria, la figura più limpida, ma anche la meno conosciuta. Quindi, per altri quattro anni è probabile che la Colombia debba soffrire quel mix di guerra, miseria e impunità che ha subito in dosi massicce da quando il presidente dalla ‟mano forte e cuore grande” è entrato a Palacio Nariño. Un martirio oltretutto inutile, visti i malinconici risultati riguardanti i principali mali che, secondo Uribe, affliggerebbero il paese: la droga e la guerriglia. La prima, rimasta quantitativamente invariata sia nelle coltivazioni che nel commercio. La seconda, ormai da identificare con le Farc, tatticamente ripiegata, ma sempre più forte e comunque capace di attaccare l'esercito in ogni regione del paese, come ha fatto il 27 dicembre scorso a Vistahermosa, provocando 29 vittime in un reparto élite della contro-guerriglia. Tante vite perse di giovani soldati, guerriglieri e, ancora più, di gente comune (bersaglio privilegiato di una guerra senza regole) e tanti soldi buttati in mastodontiche quanto impotenti operazioni militari servono solo a mantenere un sistema economico ad uso e consumo di un'oligarchia miope, che non ha mai tollerato la benché minima riforma sociale. Il suo organo ufficiale, il quotidiano ‟El Tiempo” accusa spesso Uribe di essere ‟un Robin Hood all'incontrario”, che toglie ai poverissimi, la maggioranza dei colombiani, per dare alla ristretta minoranza dei ricchi. Poi però ne appoggia la rielezione come ‟il male minore”. Una schizofrenia abbastanza comune nel paese del ‟realismo magico”, ma anche della democrazia apparente e della menzogna istituzionalizzata. Ne è l'esempio più clamoroso la legalizzazione del sicariato paramilitare, attuato nei decenni scorsi con armi da fuoco e motoseghe per conto dello stato e dei potentati privati, legali e illegali. Ogni giorno che passa appare sempre più evidente l'abiezione giuridica e morale della legge in questione, chiamata paradossalmente di ‟pace e giustizia”.
Un decreto ‟chiarificatore” di alcuni giorni fa, oltre ad aprire le porte del carcere a 3500 paras, per lo più colpevoli di omicidi e massacri, lascia ai giudici la discrezionalità di perseguire i crimini di lesa umanità, sancendo così un perverso meccanismo d'impunità. Liberi e legittimati, i paramilitari diventeranno, grazie alla loro esperienza delinquenziale, la punta di diamante della seconda fase della ‟politica di sicurezza democratica” di Uribe con immaginabili effetti d'ulteriore imbarbarimento sociale. E tutto fa prevedere che saranno rimpiazzati, come già avviene in molte regioni, dai ‟nuovi paras”, voluti dai nuovi narcos, ma anche indispensabili alle forze armate colombiane, sempre abituate a contare su un soggetto al loro fianco da usare doppiamente: per commissionare o per attribuire loro quelle azioni criminali che non possono realizzare e rivendicare. Opporsi a questa realtà non è affatto facile per tutti coloro che scelgono la resistenza pacifica, che sono costretti ad agire in ambiti di democrazia sempre più ristretti e che sono soffocati da una contesa armata, che potrebbe durare all'infinito. Come scrisse Bolivar ad un suo generale nel settembre 1829 in Colombia ‟il centro è molto distante dalle sue estremità”. Come a dire che in Colombia c'è posto per tutti ed è difficile, se non impossibile, che un potere riesca a prevalere in maniera definitiva su un altro: nella fattispecie, che lo stato elimini le Farc o che queste ultime abbattano lo stato.
Ma risulta anche impossibile che possano sedersi a negoziare, soprattutto se a dirigerli sono, da una parte, il fanatico Alvaro Uribe e il vecchio Tirofijo, che da quarant'anni non ha mai abbandonato la selva. Entrambi sono convinti della possibilità di una vittoria militare, a differenza della guerriglia dell'Eln che, indebolita e incapace di ritagliarsi uno spazio autonomo dalle Farc, ha accettato di avviare nei giorni scorsi a Cuba, con gli auspici di Garcia Márquez, un fumosissimo pre-dialogo con il governo di Bogotà.
Impossibile quindi, che Uribe e Tirofijo possano negoziare persino un ‟semplice” scambio di prigionieri (senza contare che nella faccenda sono implicati anche gli Usa, che detengono due comandanti guerriglieri, Simón Trinidad e Sonia e che vorrebbero riscattare tre loro uomini caduti nelle montagne del Putumayo nel 1993). Come si erano illusi nello scorso dicembre i familiari della sessantina di sequestrati delle Farc (tra cui, la franco-colombiana leader ecologista Ingrid Betancourt) e dei 500 ribelli prigionieri nelle carceri statali. E come ci si è illusi soprattutto in Europa, dopo l'abbozzo di una proposta di Francia, Spagna e Svizzera, resa pubblica da Uribe con evidenti scopi propagandistici.
Il motivo del rifiuto delle Farc non sta tanto nei problemi di sicurezza o nella vastità dell'area da smilitarizzare per gli incontri tra le parti, ma è reso chiaro dal titolo del documento col quale è stato reso pubblico: ‟Con Uribe non si farà nessuno scambio umanitario”. Lapidario e sconfortante. Al di là delle ingiurie e delle accuse reciproche di avere fatto fallire sul nascere il negoziato, che abbondano in questi giorni, è evidente che la sorte dei sequestrati e dei prigionieri interessi relativamente ai contendenti o, meglio, interessi solo strumentalmente, per ottenere vantaggi politici in questa fase elettorale che si annuncia sanguinosa come nessun'altra. Dalla guerra civile colombiana non si può pretendere niente di più, tanto meno misericordia.

Guido Piccoli

Guido Piccoli, giornalista e sceneggiatore, ha vissuto a Bogotá gli anni più caldi della "guerra ai narcos". Sulla Colombia ha scritto la biografia di Escobar, Pablo e gli altri (Ega …