Paolo Rumiz: Il Paese dei centenari

23 Gennaio 2006
Sono nascosti in case di riposo, appartamenti e case protette; dispersi in reparti geriatrici, reti di assistenza domiciliare, centri diurni e notturni; sorvegliati da eserciti di infermieri e badanti. Li fotografano per una volta sola e basta, davanti al parentado e le candeline. Invisibili, eppure sempre più numerosi in quest’Occidente tirato a fondo da una perversa demografia che svuota le culle e allunga la vita media. Loro, i più vecchi dei grandi vecchi: i centenari. 75 mila in America, oltre 25 mila in Giappone, 6 mila in Gran Bretagna, oltre 9 mila in Italia. Uomini e donne che hanno vissuto un secolo. Straordinari archivi fuori circuito. Ti aspetti che siano l’epigrafe di se stessi. Appagati, privi di desideri o rimorsi, col bilancio in pari. Pensi che la marea della vita, ritirandosi, abbia portato via le scorie, liberato le spiagge che portano all’Eterno. Invece no, i grandi padri e le grandi madri arrivano senza certezze al compleanno del secolo. Semplicemente hanno imparato a coabitare con i loro dubbi, sempre fragili come adolescenti; e si spaventano davanti all’unica cosa che funziona in loro, la memoria. Macchina maledetta, che si ostina a frugare negli archivi e tirarne fuori - a tradimento - volti, filastrocche, o sogni fatti magari una volta sola. ‟Non morirò di magagne solo per il peso delle troppe cose da dire” brontolava Carlo Orelli, morto a Roma un anno fa a quota 111. Al posto del verbo ‟morire” usava la parola ‟traslocare”. ‟Tutti dovemo traslocà” ghignava davanti alle figlie allarmate. E intanto faceva petizioni perché gli installassero l’ascensore per uscire in giardino a respirare il venticello de Roma. A Maria Terenziani, classe 1900 da Reggio Emilia, i vecchietti più giovani del centro diurno di Montecchio fecero recapitare per burla, nell’anno fatidico, una finta lettera di complimenti di Berlusconi, ma lei mangiò la foglia e si mise a cantare l’Internazionale. Entrambi, Carlo e Maria, coabitavano eroicamente con la loro decadenza. Daisy Nathan ha fatto cent’anni il 16 gennaio. Un fenomeno. Prende ancora l’aereo, cammina senza aiuto e legge. Apre la porta di casa sua a Roma e ti guarda curiosa con gli occhi color nocciola, appena vellutati dal tempo. In quegli occhi, il film di una vita: la famiglia ebraica, Trieste sotto l’impero d’Austria, il funerale di Franz Ferdinand (‟Ah, quei lampioni a gas fasciati con drappi neri, quanto mi impressionarono”), le due guerre, il fascismo, la madre strappata dal letto e portata ad Auschwitz, il fratello pittore, Arturo, pure lui morto in un lager. Non ti dice una sola cosa che ricalchi il cliché. ‟Ce l’ho con Dio” mette subito in chiaro con un sorriso disarmante. ‟Se fosse l’essere misericordioso di cui si parla, non avrebbe permesso tutto questo”. è stata felice? ‟No”, ti gela. ‟Troppi traumi. Non ho mai superato la morte di mia madre. È sempre come se fosse successo ieri. Mi è morta anche una figlia a 47 anni. Tento di ragionare, penso che si muore comunque, ma non serve a niente”. Tutto da buttare? ‟No, le amicizie sono la grande consolazione. Ma talvolta avrei preferito non esistere. Dev’essere una cosa di famiglia: mio fratello era un depresso, diceva che l’esistenza è una fogna”. La vita è breve? ‟Breve? Macché, è troppo lunga. Essere centenari è noioso. Non cammini, non vedi, non senti. E poi hai visto troppo. Non ci tengo affatto a vivere. Guardo alla morte come a una liberazione”. Rimorsi? Almeno qui ti aspetti un ‟Non, je ne regrette rien” e invece niente: ‟Ho fatto del male senza saperlo, l’ho capito sempre quand’era tardi. Ho commesso i miei errori anche nell’educazione dei figli. E poi sono enormemente pigra. Non ho mai lavorato, sono una snob. La tipica vita della cretina borghese”. Non lascia spiragli, non si autoassolve in niente. E da buona ebrea mitteleuropea si sfianca in autoanalisi. ‟Le amiche dicono che sono allegra e terapeutica, mi raccontano tutto di loro. Ma io, dentro, sono complicata. Rimugino sulla vita. Passo ore a pensare, su questa poltrona, e il bello è che non mi annoio mai. Se non fosse che mi telefonano, non smetterei. E leggo tantissimo. Affogo nei libri, non riesco a buttarne via nessuno, per me sono come esseri umani. Mi dispiace solo che fatico con i giornali, i caratteri sono troppo piccoli”. Miti sul passato? Anche qui, niente da fare. La briciole di felicità Daisy le cerca nel presente. Nel figlio, la ragione di vita. Nel genero e nella nuora, ‟adorabili”. Negli incontri, che la vita le mette di fronte. ‟Ecco, qui sono fortunata”. Niente ‟O tempora, o mores”. Se le chiedi come va il mondo, risponde che certe cose vanno meglio. ‟Oggi almeno si parla di solidarietà, volontariato, tutela. E se si uccide, si uccide con rimorso. Una volta non c’era nemmeno quello”. Momenti belli? Il giorno del centesimo compleanno, a Trieste. ‟Alla galleria Torbandena hanno dedicato una mostra a mio fratello e lì mi hanno organizzato una serata a sorpresa con musica da camera e pochi amici. La città era magnifica, il mare, le barche a vela, i pescatori. Un’armonia assoluta”. E canticchia una marcetta asburgica per bambini, ‟Einz zwei, Polizei / Drei vier, Granadier”. ‟L’ho imparata dalla bambinaia quando avevo tre anni. Mi è tornata fuori giorni fa, dopo un secolo che l’avevo dimenticata. Pensi un po”. Parla italiano ma pensa in triestino, lo mescola con un po’di tedesco e inglese. ‟Da piccola non sapevo se ero austriaca o italiana. Poi è venuto fuori che ero ebrea. Oggi non so assolutamente cosa sono”. E la religione? ‟Sono laica a cento per cento, ma se avessi la fede tutto sarebbe più semplice”. C’è qualcosa in cui si sente migliore negli anni? ‟Nell’indulgenza, amico mio. Si impara a perdonare. Questo sì”.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …