Renato Barilli: Palmezzano, un ebanista del colore

27 Febbraio 2006
Forlì dedica una mostra irreprensibile a uno dei suoi cittadini migliori, Marco Palmezzano (1459-1539), avvalendosi degli ampi spazi dei Musei di San Domenico e chiamando a curarla uno studioso d’eccezione, Antonio Paolucci, ben coadiuvato da Luciana Prati e Stefano Tumidei (fino al 30 aprile, cat. Silvana). Anche se il vero «primo della classe», nel contesto forlivese, era stato il maestro effettivo del Palmezzano, Melozzo (1438-1494), cui spetta il diritto di esser detto per antonomasia «da Forlì». Purtroppo il suo capolavoro in loco, la Cappella Feo, nella Chiesa di S. Gerolamo, è andata distrutta in una perfida incursione aerea di anni tanto più cruenti e vicini a noi (1944). Quel luogo sacro, voluto da Caterina Sforza Riario in ricordo del secondo marito, era un portento di scienza prospettica, Melozzo vi aveva tracciato, quasi col compasso (oggi si direbbe col computer) molte di quelle sue facce di santi e angeli dilatati nel sorriso, raggiunti dalle leggi inesorabili dello schiacciato, del più coraggioso «sottinsù», fin quasi alla deformazione espressionista. Ma Melozzo appartiene di diritto, e per dati anagrafici, alla grande generazione dei «nati attorno al 1430», reca cioè nelle sue invenzioni plastiche la scienza tormentata dei Cosmé Tura e Crivelli, o magari la stessa tremenda abilità negli scorci prospettici che risulta dal celebre Cristo morto del Mantegna, anche se la specialità melozziana è rivolta ad allargare le forme, piuttosto che a «infilzarle» nello spiedo delle linee di fuga.
Il Palmezzano fu un suo «creato», un allievo fedele, tanto che nei primi tempi non firmava col cognome, ma appena con una sorta di patronimico dicendosi «de Melotio». Purtroppo le date di nascita non gli furono favorevoli, in quanto lo posero «fuori generazione», un po’ tardi per appartenere a pieno diritto all’ondata dei Botticelli e Perugino e Pinturicchio e Ghirlandaio, troppo presto per raggiungere la pattuglia dei grandi «moderni», aperta, in terra veneta, da Giorgione, ma già ampiamente anticipata da quello straordinario «traghettatore» che fu Giovanni Bellini, nato ancora nel ’30, ma proiettato verso i tempi nuovi del primo Cinquecento. Invece il povero Palmezzano, trovandosi a metà strada tra gli uni e gli altri, fu assorbito nelle posizioni via via più attardate di coloro che il Vasari, troppo poco letto e veramente «capito», condannava al limbo della «seconda maniera»: coloro che, proprio come i Perugino e Signorelli, non riuscivano a sfondare davvero la stanza, a diffondersi in lontananze azzurrine, animate da flussi atmosferici, ma persistevano a collocare in primo piano dei corpi duri, rigidi, coriacei, fatti di cuoio o di metallo, mai di buona carne viva, allietata da un flusso di calda circolazione sanguigna.
E infatti, se andiamo a vedere da vicino i capolavori del Palmezzano, tutti presenti in questa mostra perfetta, troviamo Madonne con Bambino, Angeli annuncianti, Santi, testine di angeli veleggianti in cielo, tutti sapientemente scolpiti nel legno, sospesi in un’eternità senza crepe e tarli. Evidentemente, è passato un mago incantatore e con colpo di bacchetta ha fissato nella staticità più ferma quell’umanità decorosa, contegnosa, di sacri personaggi che sanno bene di recitare una parte fissa, e lo fanno immobilizzandosi secondo le buone regole del rito. Perfino le pieghe degli abiti sembrano scavate nel legno, con spigoli duri, quasi taglienti, se la mano le volesse scorrere, meglio allora limitarsi a guardarle da lontane, con occhio limpido e terso, così come limpida è l’apparizione dei dati del paesaggio, anch’esso fatto di rocce e pareti di case taglienti, o allietato da nuvolette che navigano in alto ma senza mai disciogliersi, simili quasi a dei riccioli residui sollevati da una pialla che stridendo scivola sulle assi e ne trae scaglie di spessore millimetrico, ma pur sempre rigide, acuminate. A loro volta le preziose icone lignee vengono deposte in nicchie, tabernacoli, logge in cui si dispiega un tripudio di motivi ornamentali, marezzature di colonne marmoree, preziose incrostazioni auree di paraste e architravi di sostegno. Quelle figure immote e statiche, insomma, risultano imbozzolate in lucide gabbie, in mirabili scrigni di gemme, assumendo esse stesse la natura di stupendi pezzi di oreficeria.
Fino alle soglie del ’500 il Palmezzano resta in corsa, dato che, dopo tutto, in quegli anni, gli altri esponenti della «seconda maniera», più grandi di lui, sparano ancora i loro ultimi colpi, ed è perfino possibile mantenere un confronto con la marcia progressiva del Bellini, nella cui carriera si possono sorprendere opere, come il Cristo morto sorretto dagli angeli, dei Musei di Rimini, ancora irrigidite in una fissità lignea, ma con angeli che già si riscuotono dal letargo ed esprimono un volto preoccupato, angosciato per il dramma cui assistono. L’emozione, il palpito della vita vissuta, col Bellini già penetrano nel chiuso delle stanze, e si va verso l’«aperto» del mondo moderno. Invece, varcato l’anno 1500, e nei tre decenni che ancora gli restano da vivere, il Palmezzano si barrica nell’ossequio di ricette ormai datate, arcigne, arcaizzanti, anche se lo fa pur sempre con la maestria del grande artefice, del consumato maestro ebanista. Gli sono attorno, in mostra, i comprimari che si chiamano Maestro dei Baldraccani, Baldassarre Carrari, Bernardino e Francesco Zaganelli.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …