Vanna Vannuccini: Iran, nel salotto dei riformisti. “Il popolo ha scelto i despoti”

27 Febbraio 2006
Viene considerato il Socrate iraniano, perché come Socrate ha negato legittimità al tribunale che lo condannava. Abdullah Nouri, un hojatoleslam, il rango appena inferiore a quello di ayatollah, era la speranza dei riformatori iraniani. Intimo di Khomeini fin dall’inizio della rivoluzione, suo rappresentante presso i pasdaran, membro del potente consiglio degli Esperti e poi ministro dell’Interno nel primo governo Khatami, diventò uno dei critici più coraggiosi della pretesa della religione di avere la supremazia sulle istituzioni democratiche. Quando il Parlamento gli negò la conferma a ministro dell’Interno il presidente Khatami, in uno dei rari gesti di sfida della sua carriera politica, lo nominò vicepresidente. Direttore del giornale ‟Khordad”, era il più popolare dei riformatori e tutti lo vedevano già come futuro presidente del Parlamento quando un tribunale speciale islamico nel 1999 lo condannò a cinque anni di carcere ‟per tradimento della rivoluzione”. Il processo segnò una pietra miliare nel dibattito interno al mondo islamico sulla necessità di riformare l’Islam. Mai prima di allora le contraddizioni tra legittimazione democratica e legittimazione religiosa erano venute alla luce con tanta chiarezza. ‟Questo tribunale speciale è al di fuori della Costituzione”, disse Nouri ai suoi giudici. ‟Voi giudici religiosi siete qui perché vi ha nominato il Leader Khamenei, ma nemmeno il Leader può mettersi al di fuori della legge e della Costituzione”. In quegli anni tutto il mondo islamico guardava all’Iran: lì si sarebbe deciso se dopo il terrore post-rivoluzionario l’islamismo radicale si sarebbe stabilizzato oppure trasformato. La Repubblica islamica può sopravvivere solo riformandosi, disse Nouri al processo. Riformarsi, per una religione, significava uscire dall’ambito della vita quotidiana delle persone: velo, divieto di bere alcool, divisione dei sessi e, prima di tutto il velayat-e-fahiq, il potere assoluto del leader religioso imposto da Khomeini. Mentre era nel carcere di Evin, il fratello Ali Reza, un giovane medico, prese il suo posto nella campagna elettorale e fu eletto al Parlamento con una valanga di voti. Mentre andava a un raduno di elettori, l’autista si accorse improvvisamente che la macchina era completamente priva di freni. Finirono in un burrone, uno di quegli incidenti che in Iran sono destinati a restare oscuri nonostante i molti sospetti. Da quando è uscito di prigione, Abdullah Nouri non ha più detto una parola. ‟Un silenzio totale, più significativo di molte parole”, mi dice il figlio Mohsen. Ma di recente ha deciso di romperlo. La crisi in cui si trova l’Iran, il sempre più profondo isolamento internazionale, lo hanno spinto a mettere a disposizione la sua casa di Tajrish, un vecchio villaggio ormai inglobato nella megalopoli di Teheran, a tutti gli uomini di buona volontà, a qualsiasi corrente appartengano, religiosa o no, per incontrarsi e discutere. Giovedì sera il grande salone vuoto di mobili era gremito di gente. Per tre ore siamo rimasti accovacciati su un enorme tappeto ad ascoltare un dibattito sulla democratizzazione e la lotta all’islamismo radicale, sulla secolarizzazione della cultura islamica, sulle ragioni che hanno impedito all’Islam di avere un’epoca dei Lumi, e sul perché il sogno riformatore in Iran sia fallito. Sembra un paradosso ha notato uno dei presenti, che questo sogno di un Islam riformabile fosse cominciato proprio in Iran, il primo Stato islamico. L’Islam non è riformabile, aveva decretato Samuel Hungtington nel suo ‟scontro delle civiltà”, ed è così che la pensano gli islamisti radicali, che vedono l’Islam come un complesso di regole date da Dio, valide in ogni luogo e in ogni tempo solo se vengono interpretate come nel VII secolo al tempo di Maometto. E per raggiungere questo obiettivo considerano valido qualsiasi mezzo, dai processi dei tribunali religiosi agli attentati terroristici. Storicamente invece, una divisione tra potere politico e potere religioso c’è stata quasi sempre nell’Islam, solo che (diversamente che nel cristianesimo) non è mai stata accettata nella dottrina, ma vista come alternativa provvisoria in attesa di un migliore ordine divino. Ma perché quel programma di riforme, di libertà civili, di dialogo e di tolleranza che apriva agli iraniani un nuovo futuro ad un certo momento è stato abbandonato dalla popolazione che ha voltato le spalle ai riformatori? ‟L’Iran è stato storicamente una roccaforte del dispotismo, e questo spiega il carattere nazionale iraniano e le sue debolezze. Lo Stato ha paura del popolo e il popolo odia lo Stato. Così i regimi cadono e gli uomini fuggono dal paese. L’Islam ha applicato la razionalità alle scienze, ma non alla politica e all’economia. Manca una cultura politica, la capacità di pensare razionalmente e prendere decisioni responsabili non basate soltanto su vantaggi personali a breve termine. La società iraniana è una società a breve termine”, ha risposto il relatore Mohammad Tabibian, un economista. L’allegoria è quella dell’uovo, che è fatto per resistere alle pressioni esterne ma si rompe facilmente dall’interno quando il pulcino è pronto. Non è consigliabile spezzarlo dal di fuori prima che il pulcino abbia imparato a stare sulle proprie gambe. Il pulcino è la gioventù iraniana che se non è attrezzata a pensare criticamente ripeterà sempre gli errori di chi l’ha preceduta e finirà per arrabattarsi in un contesto economico sempre più difficile o sognerà di partire per il Canada, domandandosi perché gli iraniani siano così sfortunati. Per questo se arriva qualcuno che promette mari e monti lo voteranno, e se invece qualcuno propone di lavorare seriamente tutti insieme verso un obiettivo gli volteranno le spalle.

Vanna Vannuccini

Vanna Vannuccini è inviata de “la Repubblica”, di cui è stata corrispondente dalla Germania negli anni della caduta del Muro. Ha seguito le Guerre balcaniche, lavorato in diversi paesi e, …