Paolo Rumiz: Quei 1048 nomi riemersi dalle foibe
09 Marzo 2006
Sottotenente dei bersaglieri Giovanni Mastinu, nato a Nuoro 1922, di padre Pio, ucciso durante il trasferimento a Vipacco per tentativo di fuga. Soldato Bosio Gino, nato a Suzzara (Mantova) 1896, di padre Macedonia madre Maria Augusta, arrestato a Gorizia il 4 maggio, visto per l’ultima volta a Peuma oltre il ponte sull’Isonzo. E ancora Pregnolato Vittorio da Pavia, tenente colonnello Berardi Manlio nato a Serandi Grande, Uruguay, incarcerato a Kocevije. Frammenti di vita, pezzi di storia, nomi nuovi che riemergono come un appello postumo dopo 60 anni, dal dossier del governo sloveno sulle deportazioni senza ritorno del maggio 45 nella Venezia Giulia.
Soldati, come Mastroianni Antonio, nato 1924 a Maddaloni da padre Bernardo, deportato il 14 maggio, finito a Borovnica presso Lubiana nel 1946. O il maresciallo Antonacci Nicola, nato a Gallipoli 1898, di padre Guglielmo madre Teresa De Benedetto, arrestato a Lucinico, Gorizia, il 6 maggio. O Posa Vincenzo, classe 1896, nato a Adelfia, Bari, di Francesco ed Elisa, visto a Aidussina e nel 48 a Lubiana.
Tre, forse quattrocento nomi nuovi - di soldati, carabinieri, finanzieri finiti nel tritacarne di quel tremendo dopoguerra - si aggiungono al dossier-foibe assieme ad altre centinaia (totale 1048) che oggi ‟Il Piccolo” anticipa per esteso. Nomi importanti, di cui non esistevano elenchi. Finora si era cercato con cura solo tra i deportati nativi della zona. Mancavano all’appello i soldati, quelli di leva, venuti da altrove, dislocati su quella frontiera dove si consumò una tragedia dimenticata da un’Italia già liberata e in festa.
Una tragedia italiana, non solo delle genti di frontiera. Il dossier sloveno non nasconde nulla, affronta una glasnost coraggiosa anche per quanto riguarda i civili. ‟Gli arresti furono effettuati secondo accurati elenchi pronti dal 1944” e completati fino alla vigilia degli arresti in massa. ‟Furono condannati subito senza pietà i funzionari di banca, delle compagnie di assicurazione, degli istituti pubblici, i direttori delle scuole”, vennero fatti sparire ‟i dipendenti dell’anagrafe”, e poi ancora ‟i professori e i maestri di scuola”. Non fecero ritorno i "carabinieri", che furono inghiottiti nel nulla ‟sulla strada che da Idria porta a Aidussina”, nella foresta di Tarnova, un labirinto di alture e precipizi poco oltre frontiera, di cui Tito rimase padrone fino all’ultimo. Segue un elenco di 1048 nomi, con dati anagrafici, professione o corpo militare, luogo d’arresto e d’internamento.
Si trattò, più che di una resa dei conti politica, della decapitazione di una classe dirigente. Come a Sarajevo, Belgrado, Lubiana o nelle ultime plaghe della Macedonia, la borghesia fu eliminata anche a Gorizia e Trieste, destinate a diventare - nei piani di Tito subito stoppati dagli Alleati - la settima repubblica comunista jugoslava. Sparirono i benestanti, i ricchi, gli invidiati. Spesso, la brava gente, che era rimasta in casa perché sentiva di non avere nulla da temere. Sparirono anche partigiani, rei di essere patrioti d’Italia. Molti fascisti macchiatisi di crimini, invece, la fecero franca. Se l’erano già comodamente squagliata, per imboscarsi tra gli anglo-americani.
‟È un dossier ancora parziale”, sottolinea l’autrice, la storica slovena Natasa Nemec, che ci lavora meticolosamente da 13 anni. Altri nomi andranno aggiunti in futuro, molti archivi sono ancora da aprire; i dati più sensibili stanno a Belgrado, più che a Lubiana. Ma egualmente emergono infiniti dettagli, sui luoghi di detenzione e d’arresto, i tempi di presenza in questo o quel carcere, le date degli eventuali ritorni, i siti dove le vittime furono viste per l’ultima volta. Si scopre che molti non vennero ammazzati o infoibati subito, ma anche due anni dopo la guerra, al termine di un’odissea durata fino a venti mesi. Ma manca, per tutti, il dato più importante, il più atteso dai parenti: il luogo della morte. Per portare alle vittime almeno la consolazione di un fiore.
Nessuno, oggi, vuole più un processo. Ma riempire un vuoto sì, dopo sessant’anni di silenzio e indifferenza da parte italiana. ‟Non ti rassegni mai” mormora Mario Grapulin, 85 anni, che a Gorizia si vide portar via padre e fratello nella notte fra il 2 e il 3 maggio del 45, quando sulla frontiera orientale la Liberazione si rivelò un incubo. Di loro non seppe più nulla, tranne che erano passati in fila con i polsi legati da filo di ferro. Anche lui, ora, andrà a guardare in quegli elenchi, in cerca di un indizio, di una traccia qualunque. Non li ha visti ancora ma sa che dentro c’è qualcosa. Uno dei due dispersi morì di inedia presso Ilijska Bistrica (Villa del Nevoso), ma quale dei due esattamente non si sa: padre e figlio avevano lo stesso nome, Edoardo. Per questo furono arrestati insieme.
Sarà una processione, lunedì, quando l’elenco sarà messo a disposizione dei parenti, in un ufficio della prefettura dato in gestione ai due comitati che rappresentano i congiunti dei deportati. Fino ad allora, e anche dopo, i nomi avrebbero dovuto restare segreti, e questo per una discutibile "tutela della privacy". Segreti lo sono da dicembre, quando l’elenco fu consegnato al sindaco di Gorizia Vittorio Brancati dal collega di Nova Gorica Mirko Brulc, per conto del ministro degli esteri sloveno Dimitrij Rupel. L’idea italiana era quella di lasciare ai parenti dei deportati la verifica dei nomi; ma poiché nessuna delle due associazioni - composte spesso da anziani - se l’è sentita, il dossier è tornato al Palazzo, dal quale due giorni fa il neo-prefetto Roberto De Lorenzo ha lanciato la notizia (già data a dicembre) con dovizia di dettagli. E con l’effetto indiretto di risvegliare a tre settimane dal voto il vespaio delle foibe, da sempre foriero di zizzania tra i partiti.
‟Che senso ha tenere questo dossier come una cosa in famiglia?” brontola lo storico Roberto Spazzali, autore di studi sulle foibe. ‟Sarebbe il modo peggiore per fare luce su quanto accadde. Un vero controllo incrociato con gli elenchi preesistenti lo possono fare solo gli studiosi”. Ma già ieri, con la notizia sui giornali, la caccia al ‟chi l’ha visto” è partita alla rinfusa. Un tam-tam di nomi che tornano a galla dopo sessant’anni. Mentre sono a casa della signora Clara Morassi, 80 anni ben portati, presidente di uno dei due comitati dei congiunti e figlia del vicesindaco di Gorizia fatto sparire dai titini, arrivano telefonate persino da Messina. Una chiede di un carabiniere mai tornato a casa dopo il conflitto. Anche lui stava a Gorizia, come tanti militari del resto d’Italia. Quattrocento, che non compaiono nei vecchi elenchi dei dispersi della Venezia Giulia. È qui che il dossier sloveno fornisce le rivelazioni più interessanti.
Povera signora Clara, ce la farà? ‟Sono felice di fare questo lavoro” risponde con in mano il suo dossier solo teoricamente segreto, e le brillano gli occhi chiari. ‟Sono felice di mettermi al servizio di chi ha passato quello che ho passato io”. Racconta di quando vennero, alle cinque del mattino, e chiesero del padre Gino. Erano educati, non sequestrarono nemmeno i fucili da caccia. ‟Ma fuori, per strada, era pieno di uomini con le mani legate fortunatamente la mamma non vide”. Poi la partenza a camionate verso le montagne, la disperazione dei rimasti, le richieste di danaro di sciacalli che millantano liberazioni mai avvenute, le preghiere agli angloamericani che non capiscono cosa accade, vedono solo la punizione dei vinti, ‟bloody fascists”. E lasciano fare.
‟È un momento importante - spiega commosso il sindaco di Gorizia - la dimostrazione che in questa piccola città si stanno abbattendo grandi muri. Nessuna frontiera europea può cadere se non si abbattono anche le frontiere della memoria. Noi abbiamo rimesso a posto mesi fa un monumento ai caduti partigiani in Slovenia lordato dai fascisti di casa nostra. E gli Sloveni hanno reso omaggio a nostri morti. Ora è importante che i soliti politicanti non ci speculino sopra”.
Soldati, come Mastroianni Antonio, nato 1924 a Maddaloni da padre Bernardo, deportato il 14 maggio, finito a Borovnica presso Lubiana nel 1946. O il maresciallo Antonacci Nicola, nato a Gallipoli 1898, di padre Guglielmo madre Teresa De Benedetto, arrestato a Lucinico, Gorizia, il 6 maggio. O Posa Vincenzo, classe 1896, nato a Adelfia, Bari, di Francesco ed Elisa, visto a Aidussina e nel 48 a Lubiana.
Tre, forse quattrocento nomi nuovi - di soldati, carabinieri, finanzieri finiti nel tritacarne di quel tremendo dopoguerra - si aggiungono al dossier-foibe assieme ad altre centinaia (totale 1048) che oggi ‟Il Piccolo” anticipa per esteso. Nomi importanti, di cui non esistevano elenchi. Finora si era cercato con cura solo tra i deportati nativi della zona. Mancavano all’appello i soldati, quelli di leva, venuti da altrove, dislocati su quella frontiera dove si consumò una tragedia dimenticata da un’Italia già liberata e in festa.
Una tragedia italiana, non solo delle genti di frontiera. Il dossier sloveno non nasconde nulla, affronta una glasnost coraggiosa anche per quanto riguarda i civili. ‟Gli arresti furono effettuati secondo accurati elenchi pronti dal 1944” e completati fino alla vigilia degli arresti in massa. ‟Furono condannati subito senza pietà i funzionari di banca, delle compagnie di assicurazione, degli istituti pubblici, i direttori delle scuole”, vennero fatti sparire ‟i dipendenti dell’anagrafe”, e poi ancora ‟i professori e i maestri di scuola”. Non fecero ritorno i "carabinieri", che furono inghiottiti nel nulla ‟sulla strada che da Idria porta a Aidussina”, nella foresta di Tarnova, un labirinto di alture e precipizi poco oltre frontiera, di cui Tito rimase padrone fino all’ultimo. Segue un elenco di 1048 nomi, con dati anagrafici, professione o corpo militare, luogo d’arresto e d’internamento.
Si trattò, più che di una resa dei conti politica, della decapitazione di una classe dirigente. Come a Sarajevo, Belgrado, Lubiana o nelle ultime plaghe della Macedonia, la borghesia fu eliminata anche a Gorizia e Trieste, destinate a diventare - nei piani di Tito subito stoppati dagli Alleati - la settima repubblica comunista jugoslava. Sparirono i benestanti, i ricchi, gli invidiati. Spesso, la brava gente, che era rimasta in casa perché sentiva di non avere nulla da temere. Sparirono anche partigiani, rei di essere patrioti d’Italia. Molti fascisti macchiatisi di crimini, invece, la fecero franca. Se l’erano già comodamente squagliata, per imboscarsi tra gli anglo-americani.
‟È un dossier ancora parziale”, sottolinea l’autrice, la storica slovena Natasa Nemec, che ci lavora meticolosamente da 13 anni. Altri nomi andranno aggiunti in futuro, molti archivi sono ancora da aprire; i dati più sensibili stanno a Belgrado, più che a Lubiana. Ma egualmente emergono infiniti dettagli, sui luoghi di detenzione e d’arresto, i tempi di presenza in questo o quel carcere, le date degli eventuali ritorni, i siti dove le vittime furono viste per l’ultima volta. Si scopre che molti non vennero ammazzati o infoibati subito, ma anche due anni dopo la guerra, al termine di un’odissea durata fino a venti mesi. Ma manca, per tutti, il dato più importante, il più atteso dai parenti: il luogo della morte. Per portare alle vittime almeno la consolazione di un fiore.
Nessuno, oggi, vuole più un processo. Ma riempire un vuoto sì, dopo sessant’anni di silenzio e indifferenza da parte italiana. ‟Non ti rassegni mai” mormora Mario Grapulin, 85 anni, che a Gorizia si vide portar via padre e fratello nella notte fra il 2 e il 3 maggio del 45, quando sulla frontiera orientale la Liberazione si rivelò un incubo. Di loro non seppe più nulla, tranne che erano passati in fila con i polsi legati da filo di ferro. Anche lui, ora, andrà a guardare in quegli elenchi, in cerca di un indizio, di una traccia qualunque. Non li ha visti ancora ma sa che dentro c’è qualcosa. Uno dei due dispersi morì di inedia presso Ilijska Bistrica (Villa del Nevoso), ma quale dei due esattamente non si sa: padre e figlio avevano lo stesso nome, Edoardo. Per questo furono arrestati insieme.
Sarà una processione, lunedì, quando l’elenco sarà messo a disposizione dei parenti, in un ufficio della prefettura dato in gestione ai due comitati che rappresentano i congiunti dei deportati. Fino ad allora, e anche dopo, i nomi avrebbero dovuto restare segreti, e questo per una discutibile "tutela della privacy". Segreti lo sono da dicembre, quando l’elenco fu consegnato al sindaco di Gorizia Vittorio Brancati dal collega di Nova Gorica Mirko Brulc, per conto del ministro degli esteri sloveno Dimitrij Rupel. L’idea italiana era quella di lasciare ai parenti dei deportati la verifica dei nomi; ma poiché nessuna delle due associazioni - composte spesso da anziani - se l’è sentita, il dossier è tornato al Palazzo, dal quale due giorni fa il neo-prefetto Roberto De Lorenzo ha lanciato la notizia (già data a dicembre) con dovizia di dettagli. E con l’effetto indiretto di risvegliare a tre settimane dal voto il vespaio delle foibe, da sempre foriero di zizzania tra i partiti.
‟Che senso ha tenere questo dossier come una cosa in famiglia?” brontola lo storico Roberto Spazzali, autore di studi sulle foibe. ‟Sarebbe il modo peggiore per fare luce su quanto accadde. Un vero controllo incrociato con gli elenchi preesistenti lo possono fare solo gli studiosi”. Ma già ieri, con la notizia sui giornali, la caccia al ‟chi l’ha visto” è partita alla rinfusa. Un tam-tam di nomi che tornano a galla dopo sessant’anni. Mentre sono a casa della signora Clara Morassi, 80 anni ben portati, presidente di uno dei due comitati dei congiunti e figlia del vicesindaco di Gorizia fatto sparire dai titini, arrivano telefonate persino da Messina. Una chiede di un carabiniere mai tornato a casa dopo il conflitto. Anche lui stava a Gorizia, come tanti militari del resto d’Italia. Quattrocento, che non compaiono nei vecchi elenchi dei dispersi della Venezia Giulia. È qui che il dossier sloveno fornisce le rivelazioni più interessanti.
Povera signora Clara, ce la farà? ‟Sono felice di fare questo lavoro” risponde con in mano il suo dossier solo teoricamente segreto, e le brillano gli occhi chiari. ‟Sono felice di mettermi al servizio di chi ha passato quello che ho passato io”. Racconta di quando vennero, alle cinque del mattino, e chiesero del padre Gino. Erano educati, non sequestrarono nemmeno i fucili da caccia. ‟Ma fuori, per strada, era pieno di uomini con le mani legate fortunatamente la mamma non vide”. Poi la partenza a camionate verso le montagne, la disperazione dei rimasti, le richieste di danaro di sciacalli che millantano liberazioni mai avvenute, le preghiere agli angloamericani che non capiscono cosa accade, vedono solo la punizione dei vinti, ‟bloody fascists”. E lasciano fare.
‟È un momento importante - spiega commosso il sindaco di Gorizia - la dimostrazione che in questa piccola città si stanno abbattendo grandi muri. Nessuna frontiera europea può cadere se non si abbattono anche le frontiere della memoria. Noi abbiamo rimesso a posto mesi fa un monumento ai caduti partigiani in Slovenia lordato dai fascisti di casa nostra. E gli Sloveni hanno reso omaggio a nostri morti. Ora è importante che i soliti politicanti non ci speculino sopra”.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …