Slavoj Zizek: Milosevic, la morte del primo post-titoista

15 Marzo 2006
Ecco come ha descritto ‟lo strano tipo di simbiosi tra Milosevic e i serbi” Aleksandar Tijanic, un importante editorialista serbo che per un breve periodo fu anche ministro di Milosevic per l'informazione e i mezzi di comunicazione pubblici. ‟Nell'insieme, Milosevic piace ai serbi. Con lui al potere, i serbi hanno abolito il tempo del lavoro. Nessuno fa niente. Egli ha permesso il fiorire del mercato nero e del contrabbando. Si può apparire sulla tv di stato e insultare Blair, Clinton, o qualunque altro dei ‘dignitari del mondo’. [...] Inoltre Milosevic ci ha concesso il diritto di avere armi. Ci ha concesso il diritto di risolvere tutti i nostri problemi con le armi. Ci ha anche concesso il diritto di guidare macchine rubate. [...] Milosevic ha cambiato la vita quotidiana dei serbi facendone una grande vacanza e ha permesso a tutti noi di sentirci come dei liceali in gita scolastica. Questo significa che niente, ma veramente niente, di quello che facciamo può essere soggetto a punizione”. (Aleksandar Tijanic, ‟The Remote Day of Change”, Mladina, Lubiana, 9 agosto 1999).

Un cliché da capovolgere
Va dunque capovolto il cliché secondo cui un forte sentimento di identificazione etnica restaurerebbe un insieme di valori forti e di convincimenti a fronte della disorientante insicurezza della società globale secolarizzata moderna. Il fondamentalismo nazionalista è piuttosto il latore di un malcelato ‟potete!”.
La società ‟postmoderna” di oggi, edonistica e permissiva, è sempre più saturata dalle norme e dai regolamenti che dovrebbero servire al nostro benessere (restrizioni sul fumo e sull'alimentazione, norme contro le molestie sessuali).
In questo contesto il riferimento a un forte sentimento di identificazione etnica, lungi dal contenerci ulteriormente, funziona come un liberatorio ‟potete!”. Potete violare le regole rigide della coesistenza pacifica della società liberale tollerante, potete bere e mangiare quello che volete, comportarvi secondo tradizioni patriarcali proibite dal ‟politicamente corretto” di stampo liberale, e persino odiare, combattere, uccidere e stuprare...
Senza il pieno riconoscimento di questo effetto pseudo-liberatorio del nazionalismo di oggi, ci auto-condanniamo a non afferrare la vera dinamica dell'ascesa di Milosevic, resa possibile dalle specifiche condizioni della crisi della Jugoslavia negli anni ‘80 del Novecento. Il potere esplosivo del movimento di Milosevic ebbe il suo detonatore nella fusione di due ingredienti originariamente scollegati l'uno dall'altro, addirittura opposti: la nomenklatura comunista in lotta per conservare il potere, e il nazionalismo anticomunista coltivato soprattutto da poeti e scrittori conservatori. Le cose presero una piega catastrofica quando in Serbia, nel 1986, la stessa nomenklatura adottò il nazionalismo come strategia di sopravvivenza.
Certo, Milosevic ha ‟manipolato” i sentimenti nazionalistici, ma furono i poeti a fornirgli un materiale che si prestava alla manipolazione. Ci furono loro - i poeti sinceri, non i politici corrotti - all'origine di tutto questo quando, negli anni ‘70 e all'inizio degli anni ‘80, cominciarono a gettare i semi di un nazionalismo aggressivo non solo in Serbia, ma anche in altre repubbliche ex jugoslave. Invece del complesso militare-industriale, nella post-Jugoslavia abbiamo avuto il complesso militare-poetico, incarnato da Radovan Karadzic, il poeta-guerriero serbo-bosniaco.
Nella Fenomenologia dello spirito Hegel parla del ‟silenzioso lavorio dello spirito”: il lavoro sotterraneo per modificare le coordinate ideologiche, quasi del tutto invisibile agli occhi dell'opinione pubblica, esplode poi all'improvviso cogliendo tutti di sorpresa. Questo è quanto accadeva nella ex Jugoslavia degli anni ‘70 e ‘80, sì che quando le cose esplosero, alla fine degli anni ‘80, era già troppo tardi. Il vecchio consenso ideologico, ormai imputridito, implose. Negli anni ‘70 e ‘80 la Jugoslavia era come il proverbiale gatto dei cartoni animati, che continua a camminare sopra il precipizio: precipita solo quando, alla fine, guarda in basso e si accorge di non avere la terra sotto i piedi. Milosevic è stato il primo a costringerci tutti a guardare veramente in basso, nel precipizio.
Dobbiamo perciò liquidare quella che è probabilmente la più insidiosa delle illusioni pseudo-di-sinistra: l'idea che, nella Jugoslavia della fine degli anni ‘80, i comunisti non nazionalisti abbiano perso un'occasione d'oro per unirsi contro Milosevic sulla piattaforma democratico-socialista mirante a salvare l'eredità di Tito. Nel 1989, a una riunione del Politburo della Lega jugoslava dei comunisti dedicata alla memoria di Tito, si tentò effettivamente di fare fronte comune per difendere l'eredità di Tito contro l'assalto del nazionalismo di Milosevic, ma lo spettacolo fu uno dei più tristi e ridicoli mai visti. I comunisti ‟democratici” (il croato Ivica Racan, che tenne il discorso introduttivo, lo sloveno Milan Kucan, ecc.) volevano dimostrare un'ovvietà, una sorta di vérité de la Palice, e cioè che il nazionalismo serbo sostenuto da Milosevic minava le stesse fondamenta della Jugoslavia di Tito. Il problema di questa strategia fu che essa fece cilecca miseramente perché i ‟difensori democratici di Tito” si misero fuori gioco da soli adottando una posizione ridicola, insostenibile e autolesionista: per difendere le potenzialità democratiche contro la minaccia nazionalistica pretesero di parlare a nome della stessa ideologia in contrapposizione alla quale si era definito il movimento democratico jugoslavo. In questo modo, resero molto facile per Milosevic far passare il suo messaggio, che suonava così: ‟Voi siete ancora posseduti dai fantasmi di un'ideologia che ha perso il suo potere, mentre io sono il primo politico che ha pienamente preso atto delle conseguenze del fatto, da voi negato, che Tito è morto!”. Così una fedeltà molto superficiale all'eredità di Tito immobilizzò la maggioranza della Lega jugoslava dei comunisti, lasciando l'iniziativa politica in mano a Milosevic.

Aggrappati a vecchi fantasmi
La verità del triste spettacolo della fine degli anni ‘80 è che Milosevic fissò le regole e determinò la dinamica politica: egli agiva, mentre altre fazioni presenti nella Lega dei comunisti si limitarono a reagire. Invece di aggrapparsi a vecchi fantasmi, il solo modo di contrastare efficacemente Milosevic sarebbe stato quello di rischiare un passo in più di lui: sottoporre apertamente a una critica radicale la stessa eredità di Tito. O, per dirla in termini più patetici: non è stato solo Milosevic a tradire l'eredità di Tito a un livello più profondo; gli stessi difensori del titoismo, contrari a Milosevic, i rappresentanti delle nomenklature locali preoccupati di perdere i loro privilegi, stavano già aggrappandosi solo al cadavere del titoismo ritualizzato. C'erano alcune giustificazioni nel modo in cui il movimento populista di Milosevic rovesciò le nomenklature locali della Vojvodina e del Montenegro (le cosiddette ‟rivoluzioni dello yogurt”).
Un paio di anni fa uno dei negoziatori americani ha detto che Milosevic non era solo una parte del problema: era piuttosto il problema. Ma questo non era stato chiaro sin dall'inizio? Perché, allora, l'interminabile differimento delle potenze occidentali, che per anni hanno assecondato Milosevic legittimandolo come un fattore chiave di stabilità nella regione ed evitando di interpretare come guerra civile o persino tribale alcuni chiari episodi di aggressione serba? Perché, inizialmente, esse dettero addosso a coloro che avevano visto immediatamente ciò che Milosevic rappresentava e perciò volevano disperatamente sottrarsi alla sua presa (si veda il pubblico appoggio di James Baker a un ‟limitato intervento militare” contro la secessione slovena) appoggiando il precedente primo ministro jugoslavo Ante Markovic il cui programma, in un incredibile caso di cecità politica, fu seriamente considerato come l'ultima chance per una Jugoslavia unificata, democratica e orientata al mercato?
Combattendo Milosevic l'occidente non combatteva il suo nemico, uno degli ultimi punti di resistenza contro il ‟nuovo ordine mondiale” liberal-democratico; stava piuttosto combattendo una propria creatura, un mostro cresciuto a seguito dei compromessi e delle incongruità della stessa politica occidentale.
Milosevic aveva dunque pienamente ragione quando, all'Aja, ha accusato l'occidente di avere due pesi e due misure ricordando ai leader occidentali come, meno di dieci anni prima, quando già sapevano ciò di cui lo avrebbero poi accusato, essi lo accoglievano come un uomo di pace. Questa è la vera domanda su Milosevic: non perché sia stato indicato come il principale colpevole, ma perché sia stato trattato per così tanto tempo come un partner accettabile.

Impero globale? No, stato-nazione
Questa domanda include non solo alcune potenze dell'Europa occidentale come la Francia e la Gran Bretagna, con il loro pregiudizio filo-serbo, ma anche gli Usa. Essa ci mette davanti al paradosso centrale della politica americana di oggi: non che gli Usa siano un nuovo impero globale, ma che non lo siano. Fingendo di esserlo, essi continuano in realtà ad agire come uno stato-nazione, perseguendo spietatamente i loro interessi.
È come se le linee guida della recente politica Usa fossero un bizzarro rovesciamento del ben noto motto degli ecologisti: agisci globalmente, pensa localmente. Questa contraddizione è esemplificata nel migliore dei modi dalla doppia pressione che gli Usa esercitarono sulla Serbia nell'estate del 2003: i rappresentanti dell'America chiesero al governo serbo di consegnare i sospetti criminali di guerra al tribunale dell'Aja (in ossequio alla logica dell'impero globale che pretende una istituzione giudiziaria globale trans-statale) e di firmare allo stesso tempo il trattato bilaterale con gli Usa che obbligava la Serbia a non consegnare a qualsivoglia istituzione internazionale (compreso lo stesso tribunale dell'Aja) i cittadini americani sospettati di crimini di guerra o di altri crimini contro l'umanità (in ossequio alla logica dello stato-nazione). Nessuna meraviglia, se la reazione serba fu di incredulità e rabbia...
Così, quando a proposito del tribunale dell'Aja Timothy Garton Ash sostiene pateticamente: ‟A nessun führer o duce, a nessun Pinochet, Idi Amin o Pol Pot dovrebbe essere consentito di sentirsi al riparo dall'intervento della giustizia umana dietro i cancelli dei palazzi della sovranità”, dobbiamo semplicemente prendere nota di cosa manca in questa serie di nomi che, a parte la coppia standardizzata di Hitler e Mussolini, contiene tre dittatori del terzo mondo (e Milosevic): dov'è almeno un nome dei Sette Grandi - diciamo, uno come Henry Kissinger?
Invece di esercitarsi in discutibili variazioni sul tema ‟il tiranno è riuscito dunque a sfuggire alla sua meritata punizione?”, l'occidente dovrebbe usare l'opportunità della morte di Milosevic per riflettere sui fallimenti della propria politica.

Traduzione di Marina Impallomeni

Slavoj Zizek

Definito dalla stampa statunitense "il gigante di Lubiana", Slavoj Zizek è un filosofo i cui interessi vanno dalla psicoanalisi alla filosofia alla politica. Sloveno, nato nel 1949, "clerico vagante" nelle …