Vittorio Zucconi: Tutti i pericoli della dottrina Bush

17 Marzo 2006
Un lieve senso di vertigine, e un forte sentimento di preoccupazione, prendono chi legga la nuova edizione della dottrina Bush sulla guerra preventiva, davanti agli schermi delle televisioni che mostrano a tutti la più massiccia operazione campale americana, dall’invasione del marzo 2003, per combattere una guerra sempre data per vinta. Persino Teheran, e gli ayatollah che controllano la marionetta Ahmadinejad agitata per spaventare Europa e Usa, cominciano a temere che il bubbone iracheno diffonda la sua infezione, non di democrazia liberale, come s’illudeva chi ignorava la realtà di quella nazione, ma di terrorismo e di instabilità e sembra offrire al Satana confuso la propria mediazione per rimettere insieme i cocci dell’Iraq e richiudere il vaso di Pandora scoperchiato. Non sarebbe la prima vota che l’ironia e la fantasia della storia battono le rigidezze e le stizze ideologiche.
Fu la più grande nazione comunista del mondo, la "Cina Rossa" a segnare con la sua rottura da Mosca il tramonto di ogni sogno egemonico del leninismo.
Sostenere oggi, nel controluce della realtà sul campo, che la dottrina è infallibile riporta con un brivido alle relazioni dei segretari ai congressi del Pcus nei quali si vantavano i trionfi dell’agricoltura sovietica mentre nei negozi le gente era in fila per i cavolfiori. Illumina l’aspetto più angoscioso di tutti i governi prigionieri della propria ideologia, il continuo, ostinato e disastroso "disconnect", il distacco fra la retorica e la realtà, fra l’enunciazione e l’attuazione.
Sarebbe stato ingenuo attendersi dalla presidenza che, nel panico dell’11 settembre aveva buttato a mare 50 anni di vittoriosa strategia del contenimento e del realismo un’autocritica o un ripensamento. Bush è notoriamente allergico a ogni forma di autocritica, avendo maturato la convinzione che chiudersi nel bunker dei fedelissimi "yes men" sia ciò che l’America (e nel suo caso la Provvidenza Divina) vuole da lui. La giaculatoria dello "stay the course", del mantenere la rotta, che ripete incessantamente e che questa riedizione 2006 della cosiddetta "dottrina Bush" ripropone con poche modifiche marginali, è la formula che gli ha fatto vincere un’elezione. E che gli sta facendo perdere la guerra in Iraq e nella popolarità nazionale.
L’America che leggiamo descritta nella 49 pagine della "National Security Strategy" inviate da Bush al Parlamento, come richiesto per legge, è una grandissima potenza prigioniera di sè stessa, un Gulliver impaniato in una lotta che sa di dover combattere all’infinito, ma non sa come vincere, ‟perché siamo soltanto nei primi anni della battaglia”. Guerra comodamente infinita, quindi, perché i nemici possono potenzialmente essere tutti e ovunque ‟se con il loro arsenale di armi di distruzione di massa ci minacciano”. Frase anche questa terribilmente generica e ipocrita, perché non spiega se siano gli arsenali, o se siano le intenzioni di chi li possiede, a rappresentare quella minaccia che fa scattare la "autodifesa". Che accadrà se Putin continuerà a marciare vero l’autoritarismo e la non democrazia, come anche questo documento lo esorta a non fare, riconoscendo i segni di un’involuzione che altri, come il governo italiano, non hanno il coraggio di denunciare? Sarà usata la forza anche con una futura Russia neo autocratica? Si ripiomba così in quel surreale "processo alle intenzioni" che fu il solo, vero casus belli per invadere l’Iraq.
La discrezionalità di questo relativismo della minaccia, che ormai comprende anche Cuba e la Belarus, oltre ai soliti membri permanenti del club della "canaglie", rimane la stessa di tre anni or sono, ma aggravata dal collasso di credibilità dello spionaggio americano nel montare prima la "minaccia Saddam" e poi nel sottovalutare la guerriglia per compiacere il vice Cheney e Rumsfled nella loro illusione delle "folle festanti". Il solo cenno alla durissima lezione in corso è nel riconoscimento che ‟l’idealismo degli obbiettivi deve accompagnarsi al realismo dei mezzi”. Dopo tre anni di sangue e di terrorismo rampante, ora gli idealisti sbattono contro il realismo.
Wilson torna a essere Truman, che deve fermare MacArthur per impedirgli peggiori disastri in Corea.
La strategia della "preemption", dello sparare prima che l’altro possa impugnare la pistola, ‟resta invariata” spiega il documento, perché nulla altro può fare senza smentire la propria ragione d’essere. E questa, di dover negare l’evidenza per non distruggere l’intero edificio e trascinare chi lo ha costruito è classica, purissima riedizione "sindrome del Vietnam", è il famoso ‟io non posso perdere questa guerra” di Lyndon Johnson.
L’America che credeva di averla finalmente superata dopo il trionfo militare del febbraio 2001 in Kuwait scopre di averne superata solo una faccia, cioè la riluttanza a usare la forza, ma non la faccia opposta, che è il coraggio di riconoscere quando una guerra, come ha scritto il vecchio saggio dei conservatori William Buckely, non può essere vinta e dunque è da considerarsi perduta. Persino il solo, tangibile successo che l’Amministrazione può obbiettivamente vantare, quelle libere elezioni che furono salutare comunque come democrazia, hanno rivelato, nella formazione del Parlamento e dei partiti, la natura etnica e settaria di un voto che ha acceso, e non spento, le pulsioni alle faide e ai regolamenti dei conti.
Proprio questa edizione riveduta ma non molto corretta della "dottrina" deve infatti ammettere, con un lampo di realismo lapalissiano, che le elezioni non sono ancora democrazia e che consultazioni libere possono produrre l’esatto contrario di ciò che si voleva ottenere, come, lo cita il documento stesso, il trionfo di Hamas in Palestina.
E allora? si domanda chi già tre anni or sono aveva temuto che il cambio di regime avrebbe prodotto quello che l’affranto ambasciatore americano a Bagdad Khalizaid ha detto tre giorni or sono, "scoperchiare il vaso di Pandora".
Quali progressi abbiamo prodotto, quali missioni dei pacificazione compiute, se tre anni dopo l’invasione, migliaia di soldati devono tornare a combattere battaglie che credevano di avere già combattuto e a riconquistare località che credevano di controllare (a proposito di Vietnam)? Siamo davvero più sicuri oggi, in un mondo reso migliore dalla cattura di Saddam, mentre il Medio Oriente assiste al trionfo dei terroristi di Hamas e l’Iran si erge come un nuovo ma ben più formidabile (e reale) Iraq, mentre gli alleati della coalizione si alzano e se ne vanno sempre più numerosi, terrorizzati dalle elezioni interne, come il governo Berlusconi? La Washington repubblicana, conservatrice e ormai anche neo-neo conservatrice si dice scossa dall’incompetenza e "disconnect" fra parole e azioni e si sta sganciando, come l’opinione americana, da un Bush chiuso nel bunker delle proprie certezze. Lui ci ripete che la dottrina era eccellente, forse l’attuazione avrebbe dovuto essere più ‟realistica”. Ma mentre guardiamo alzarsi stormi di elicotteri per un nuovo assalto a una città ribelle, a qualcuno potrebbe venire il dubbio che fosse sbagliata proprio la dottrina.
Dovremo, e sarebbe davvero grottesco, sperare in Teheran per riportare un po’ di pace a Bagdad, come si dovette attendere la Siria per mettere fine al macello libanese, o nella Cina Rossa per dare l’avvio al tramonto dell’internazionale comunista?

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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