Renato Barilli: Antonello, un fiammingo mediterraneo

21 Marzo 2006
Bisogna riconoscere alle romane Scuderie del Quirinale, il luogo espositivo posto sul ‟colle più alto”, la magnifica capacità di muoversi a tutto campo. Ci avevano appena offerto un’ampia silloge di Alberto Burri, nei molteplici legami con tutti gli altri migliori campioni del contemporaneo, ed ecco che ora fa seguito ‟l’opera completa” di Antonello da Messina (1430?-1479). Non completa, a dir il vero, il che sormonterebbe le possibilità umane, ma certo ricchissima di capolavori difficili da strappare ai musei che li possiedono, sia perché su tavola, il supporto più problematico, sia proprio per la eccezionale qualità che ne fa, ogni volta, delle gemme irrinunciabili per le rispettive collezioni. Eppure il curatore della mostra, Mauro Lucco, validamente aiutato da Giovanni Villa, con l’apporto, nel catalogo Skira, di altri agguerriti contributi, ha fatto il miracolo (fino al 25 giugno).
Biglietto da visita dell’intero percorso è la preziosa tavoletta del San Gerolamo nello studio, proveniente dalla londinese National Gallery, in cui risulta un dato incontestabile: è vero che l’artista siciliano ha ricavato dai Fiamminghi, e in particolare dal padre fondatore Jan Van Eyck, il segreto della pittura a olio, come riconobbe il Vasari fin dalla prima edizione delle Vite, al punto di supporre un soggiorno del Nostro presso il più anziano maestro nordico, soggiorno di cui tuttavia non esiste documentazione. Dunque, un Antonello che deve tutto o quasi alla cultura fiamminga, giunta in Sicilia e a Napoli per le vie d’acqua, le più sicure e celeri, in quegli anni, magari ingrossandosi per strada di contributi catalani e provenzali? Lo si deve ammettere, ma nello stesso tempo è pur utile confermare la tesi impostata a suo tempo da Roberto Longhi, che parlava di una grande coiné ‟mediterranea”, incentrata su Piero della Francesca, da cui erano inondate, illuminate, spianate le opere dei nostri artisti, così da sfrondare il troppo di minuzia lenticolare che è il tratto tipico dei Fiamminghi. E proprio il San Girolamo lo conferma: certo, le stanze dello studio si aprono ad organetto, in sfilate prospettiche accuratamente scandagliate, ma la luce vi si diffonde quasi con una funzione di pialla. E si vedano anche i volatili che fanno bella mostra di sé in primo piano, soprattutto un pavone affusolato, come per dimostrare un teorema geometrico, in luogo di costituire un oggetto prezioso da Wunderkammer: esso viene da Paolo Uccello, oppure da Piero, mentre non lo si troverebbe nelle acuminate descrizioni di Van Eyck.
Anche per il tema della Crocefissione, qui presente in tutte e tre le versioni, di Sibiu, Anversa, Londra, la derivazione dal fiammingo è palese, nel modo come i crocefissi si dispongono, Cristo al centro, i due ladroni ai lati, a stampare il loro profilo arcuato contro il cielo. Ma mentre ai piedi delle tre vittime, nell’opera parallela di Van Eyck, i personaggi si accalcano, Antonello sfoltisce, riduce il numero, preferendo distendere un ampio paesaggio che appunto ‟sa” di Piero, anche se poi, nota giustamente Lucco, non si riesce a stabilire una effettiva possibilità di incontro tra i due. E così via, tema per tema, si dà pur sempre una prossimità di soluzioni, ma poi il copione comune è svolto in modi antitetici, come succede perfino per il ritratto. È ammirevole quello del maestro fiammingo presente in mostra, l’Uomo con copricapo azzurro, di grande concentrazione, eppure proprio la frangia che scende dentellata dal copricapo costituisce un motivo di distrazione, l’occhio corre ad inseguire quella preda golosa e scapricciata. Non così negli stupendi ritratti di Antonello, che senza dubbio costituiscono il punto più alto, per quel genere, nel pur grande Quattrocento italiano. Non c’è posto per fronzoli, per elementi distraenti di moda, il volto di tre quarti riempie lo schermo, allarga i tratti fisionomici in quell’enigmatico sorriso, di piena umanità, di sfida, di chi imposta un dialogo ma poi si ritrae su un proprio segreto, da fiero isolano, nobile o plebeo, magari con oscuri legami mafiosi: quasi un personaggio degno della penna di Camilleri. E anche i membri della Sacra Famiglia, Madonna e Cristo, partecipano di questa umanità sommessa e confidente, Maria annunciata è una ragazza del popolo che non trema davanti al destino arcano cui è chiamata, il Cristo alla colonna sbarra i lineamenti in una smorfia di dolore mentre gli occhi spremono lacrime reali, prive di retorica. Si sa che Antonello termina la sua esistenza recandosi a Venezia, com’è giusto che sia in nome delle rotte marinare, che portano alla Serenissima, sia per la logica stringente di questioni di stile, in quanto Venezia, alla fine del Quattrocento, è alle soglie di concepire il grande trapasso, dalla ‟seconda maniera”, per dirla sempre col Vasari, quando la visione è ancora duretta, gravata di dettagli ‟fiamminghi”, all’invasione tonale, verso cui sta procedendo il Bellini, pronto a passare il ‟testimone” a Giorgione e a Tiziano. Antonello, in quel fatidico tramando, è in testa a tutti, perfino al coetaneo Bellini, come dimostra nel dipinto più alto e conclusivo dell’intera rassegna, il San Sebastiano di Dresda, dove la figura del martire si ammorbidisce di buona carnalità, lasciandosi alle spalle i contorcimenti degli altri quattrocentisti, ivi compreso il Mantegna, e consente che il suo corpo affondi nell’azzurro sconfinato della luce mediterranea.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …