Giorgio Bocca: Com'è umiliante questo finale di regime
31 Marzo 2006
Finisce male, malissimo il Cavaliere. Disperato, furente, solo contro tutti, contro la stampa, contro i giudici, contro l'Europa contro la Confindustria, contro il capitalismo. Proprio lui, che ha cavalcato da sempre il capitalismo selvaggio, adesso che il suo potere svanisce si inventa, come il Mussolini di Salò, una congiura degli industriali ai suoi danni.
Tutto pensavamo di questo crepuscolo del piccolo duce dai tacchi alti e dai capelli finti, fuor che si atteggiasse a nemico del capitale alla testa di una ‟lotta di classe dentro la classe”, come ha scritto il suo Bombacci, il direttore del ‟Foglio”. Sbigottiti e un po' vergognati assistiamo alla rivelazione piena delle sue miserie, delle sue inaudite gaffes. Massima quella riproposta da Enrico Deaglio nel suo impressionante documentario, la seduta del Parlamento europeo in cui il presidente del Consiglio italiano ha dato del kapò, dello sbirro nazista, a un deputato tedesco che gli aveva ricordato la sua appartenenza alla P2 e la contiguità con personaggi condannati per concorso mafioso.
Ed è vero che la stampa italiana ne parlò diffusamente, ma senza lo sdegno che avrebbe meritato la vista di tutti i parlamentari in piedi a gridare contro l'italianuzzo presuntuoso e villano che aveva violato tutte le regole della buona educazione, e creduto di poter fare impunemente il suo numero strafottente al Parlamento europeo. Un gaffeur colossale che canta canzoni napoletane assieme a un posteggiatore, che recita in inglese una sviolinata agli Stati Uniti e al presidente George Bush che lo guarda divertito, che va in giro con una bandana bianca sul capo per coprire l'operazione di trapianto, che parla dell'Italia come un operatore di una società di viaggi.
Il giorno della sua incredibile recita anticapitalistica, il 19 marzo scorso, i quotidiani erano in sciopero tutti, meno quelli berlusconiani di destra. Che nel silenzio della stampa che conta, che informa, che rappresenta la società italiana riempirono le loro pagine di lodi sperticate per il Cavaliere, incapaci di giustificare i suoi deliri di addio.
Perché una delle molte differenze fra il mussolinismo e il berlusconismo è che il primo riuscì per qualche anno a farsi seguire anche dalla borghesia delle scienze e delle arti, mentre l'altro non è andato oltre una cultura leghista e qualunquista, faziosa, ricattatoria. E se ha imitato Mussolini, ha imitato solo quello di Salò e dei trionfi di cartapesta.
Sbigottiti prendiamo atto di questo finale di regime, dei danni gravissimi che il Cavaliere ha inferto al nostro paese quasi separandolo dalla comunità europea, presentandolo come il paese dei mandolini e delle pizze con un incancellabile profumo di fascismo perenne. Sbigottiti pensiamo che grazie a questo ometto gli eredi di Salò si ripropongono come nostri governanti e sfilano con gagliardetti, croci uncinate e manganelli nelle strade delle nostre città.
Avevamo previsto una campagna elettorale isterica, violenta, ma l'ometto vuole congedarsi con una mischia confusa e umiliante e già ci sono gli ultimi custodi della sua fiamma che si dicono pronti a seguirlo fino al martirio. Ma non preoccupiamocene, li ritroveremo tutti a cercare prebende e protezioni democratiche, i salti della quaglia ci riporteranno all'unanimismo di regime che, in fondo, è la nostra scelta fatale.
Resta la solita domanda del perché delle follie sociali? Perché questo personaggio sin troppo scoperto nelle sue megalomanie e nei suoi abissali vuoti di cultura ha avuto un così grande seguito nel nostro paese? Il direttore del ‟Foglio”, che conosce bene lui e noi, dice che ci è servito per sfuggire alla noia. Ma a che prezzo!
Tutto pensavamo di questo crepuscolo del piccolo duce dai tacchi alti e dai capelli finti, fuor che si atteggiasse a nemico del capitale alla testa di una ‟lotta di classe dentro la classe”, come ha scritto il suo Bombacci, il direttore del ‟Foglio”. Sbigottiti e un po' vergognati assistiamo alla rivelazione piena delle sue miserie, delle sue inaudite gaffes. Massima quella riproposta da Enrico Deaglio nel suo impressionante documentario, la seduta del Parlamento europeo in cui il presidente del Consiglio italiano ha dato del kapò, dello sbirro nazista, a un deputato tedesco che gli aveva ricordato la sua appartenenza alla P2 e la contiguità con personaggi condannati per concorso mafioso.
Ed è vero che la stampa italiana ne parlò diffusamente, ma senza lo sdegno che avrebbe meritato la vista di tutti i parlamentari in piedi a gridare contro l'italianuzzo presuntuoso e villano che aveva violato tutte le regole della buona educazione, e creduto di poter fare impunemente il suo numero strafottente al Parlamento europeo. Un gaffeur colossale che canta canzoni napoletane assieme a un posteggiatore, che recita in inglese una sviolinata agli Stati Uniti e al presidente George Bush che lo guarda divertito, che va in giro con una bandana bianca sul capo per coprire l'operazione di trapianto, che parla dell'Italia come un operatore di una società di viaggi.
Il giorno della sua incredibile recita anticapitalistica, il 19 marzo scorso, i quotidiani erano in sciopero tutti, meno quelli berlusconiani di destra. Che nel silenzio della stampa che conta, che informa, che rappresenta la società italiana riempirono le loro pagine di lodi sperticate per il Cavaliere, incapaci di giustificare i suoi deliri di addio.
Perché una delle molte differenze fra il mussolinismo e il berlusconismo è che il primo riuscì per qualche anno a farsi seguire anche dalla borghesia delle scienze e delle arti, mentre l'altro non è andato oltre una cultura leghista e qualunquista, faziosa, ricattatoria. E se ha imitato Mussolini, ha imitato solo quello di Salò e dei trionfi di cartapesta.
Sbigottiti prendiamo atto di questo finale di regime, dei danni gravissimi che il Cavaliere ha inferto al nostro paese quasi separandolo dalla comunità europea, presentandolo come il paese dei mandolini e delle pizze con un incancellabile profumo di fascismo perenne. Sbigottiti pensiamo che grazie a questo ometto gli eredi di Salò si ripropongono come nostri governanti e sfilano con gagliardetti, croci uncinate e manganelli nelle strade delle nostre città.
Avevamo previsto una campagna elettorale isterica, violenta, ma l'ometto vuole congedarsi con una mischia confusa e umiliante e già ci sono gli ultimi custodi della sua fiamma che si dicono pronti a seguirlo fino al martirio. Ma non preoccupiamocene, li ritroveremo tutti a cercare prebende e protezioni democratiche, i salti della quaglia ci riporteranno all'unanimismo di regime che, in fondo, è la nostra scelta fatale.
Resta la solita domanda del perché delle follie sociali? Perché questo personaggio sin troppo scoperto nelle sue megalomanie e nei suoi abissali vuoti di cultura ha avuto un così grande seguito nel nostro paese? Il direttore del ‟Foglio”, che conosce bene lui e noi, dice che ci è servito per sfuggire alla noia. Ma a che prezzo!
Giorgio Bocca
Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …