Massimo Mucchetti: Fiat, Pirelli, Generali Il ruolo delle banche e il futuro delle imprese

05 Aprile 2006
La ridefinizione delle partecipazioni delle banche in Fiat, Pirelli e Generali può aprire una fase nuova nel rapporto banca-impresa. Benché sia lungi dalla conclusione, il processo è ormai in corso. Nell’autunno 2005, secondo l’oneroso copione, le banche hanno convertito in azioni Fiat il prestito di 3 miliardi concesso nel 2002. Alcune, come Sanpaolo Imi e Monte dei Paschi, hanno già rivenduto materializzando le perdite; altre aspettano nella speranza che la risalita del titolo consenta addirittura di guadagnare qualcosa. In questi giorni, come da contratto, Unicredito e Intesa hanno annunciato che in autunno rivenderanno a Pirelli il 9,54% di Olimpia per 1.170 milioni: un prezzo pari al capitale investito senza remunerazione. Questo significa che, in pratica, Pirelli si è fatta finanziare dalle due banche a costo zero, evitando nel quinquennio un onere di 300-350 milioni, mentre le banche hanno rinunciato al rendimento di una liquidità che, impiegata senza rischi, avrebbe dato 160 milioni. Migliore la situazione in Generali. Qui la rivalutazione del titolo premia Mps, che rimane, e consentirebbe a Unicredito e Capitalia di uscire nel 2008 con la conversione delle obbligazioni nelle loro azioni Generali o di restare ricomprandosele al nuovo valore di mercato. Queste partecipazioni, esemplari di un’epoca, hanno ragioni diverse. Nel caso Fiat, si doveva evitare un default che avrebbe travolto lo stesso sistema bancario. In quello Pirelli, si trattava di sostenere una società che era entrata nelle telecomunicazioni a valori che, nel giro di poche settimane, erano crollati a circa un quarto dell’esborso. Nel caso Generali, si trattava di mettere in mora Mediobanca nel suo principale investimento, le Generali appunto, per porre fine alla gestione di Maranghi: un obiettivo politico perseguito anche negli altri due interventi dai quali, non a caso, Mediobanca era stata esclusa. Queste e altre operazioni (la scalata a Edison, per esempio) sono state rese possibili dal Testo unico bancario del 1993 che, dando maggior libertà di investimento alle banche commerciali, toglieva alla banca d’affari milanese il monopolio, e dunque la regia, dell’alta finanza. Ma la storia ha travolto anche la Banca d’Italia, che quelle operazioni aveva sostenuto per ergersi essa stessa a giudice di ultima istanza del capitalismo italiano. E tuttavia, nonostante le tre ritirate in atto, le banche continuano a esercitare una grande influenza sia attraverso le partecipazioni sia quando i loro prestiti, garantiti da pegno, arrivano a coprire quasi per intero gli investimenti dei capitalisti. Una simile capacità d’influenza può essere asservita a fini diversi: tessere trame e governare equilibri di potere senza curarsi della stagnazione strategica delle imprese «protette» oppure promuovere lo sviluppo senza avere capitalisti e manager da salvare comunque per riceverne in cambio appoggi e servizi. Nel primo caso, le banche saranno madrine di una classe di gestori più o meno efficienti dell’esistente a tutela, bene che vada, dei loro crediti; nell’altro caso, contribuiranno a selezionare una nuova leva di capitani d’industria, raccogliendo e reinterpretando, da azioniste di diritto o di fatto quali spesso sono, la lezione di Mattioli e del miglior Cuccia che diede al «sognatore» Adriano Olivetti il suo primo finanziamento. Da quando la Banca d’Italia ha rinunciato al dirigismo, la responsabilità ultima di queste scelte è dei banchieri. Ma a via Nazionale rimane il potere di indirizzo, che è reso rilevante dall’autorevolezza del governatore Draghi e talvolta cogente dalle norme sui conflitti d’interesse tra banca e impresa e tra banca e banca. (con la consulenza tecnica di Miraquota)

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …