Beppe Sebaste: Come si racconta una vita flessibile?

10 Aprile 2006
‟Mi sono perso nel supermercato / Non riesco a far la spesa felicemente / Sono entrato per quell’offerta speciale / Personalità garantita”… Così cantavano i Clash oltre trent’anni fa in Lost in the supermarket. Il supermercato è oggi il mondo, certo, ma è anche uno dei luoghi di lavoro più alienanti che i lavoratori precari possano sperimentare (si interroghi una cassiera e si verrà a sapere che le regole d’ingaggio e il sistema punitivo delle pause sembra ispirato all’universo concentrazionario). Ma oggi siamo tutti persi in un supermercato (globalizzazione, trionfo dell’ovunque sul luogo), senza tempo e alla deriva: questo è il senso della ‟flessibilità”, parola soft per dire la precarietà, non solo del lavoro ma dell’intera esistenza. Precarietà vuol dire, come affermavano i punk, no future. Il capitalismo, oggi, è la realizzazione di questa utopia rovesciata. Nella dimensione temporale del mondo-supermercato, ha scritto un filosofo, Fabio Merlini, ‟se ci sarà futuro, sarà ancora solo come futuro del presente, vale a dire di questo presente: ripetizione della sua eternità, intensificazione delle sue logiche, assolutizzazione dei suoi principi”.
Alla questione ci si può anche avvicinare col tema degli immigrati e del concetto di cittadinanza: non siamo forse tutti, senegalesi o pugliesi, emiliani o rumeni, in una condizione esistenziale di precarietà e reversibilità, tutti spiritualmente degli immigrati o dei rifugiati politici? Queste stesse parole le pronunciò un secolo fa, in senso però positivo e trainante, uno dei più acuti osservatori della crescita industriale in America e in Europa, Walter Lippman, autore del saggio ‟Drift and Mastery”, ‟Deriva e padronanza”. Osservando l’energia degli immigrati nel costruirsi una ‟carriera”, trovava esempio per uno scopo che desse senso al lavoro. Oggi la ‟carriera” - ‟strada per carri”, carreggiata ben fatta, metafora della vita - non c’è più. Nel labirinto del sempre uguale, nel paesaggio dell’every where, dell’indistinto, siamo tutti spiritualmente degli immigrati nel sentire che né il lavoro (job, cioè ‟pezzo” di ricambio) né la vita hanno un senso, e siamo revocabili in qualsiasi momento - stagionali dall’infimo reddito o manager addetti al downsizing (licenziamenti) nell’ambito di un reengineering (ristrutturazione) dell’azienda. Anche i tagliatori di teste, si sa, avranno la testa mozzata.
C’è una letteratura ormai molto abbondante in proposito, anche letteraria. Se gli scrittori parlano di precarietà è perché essa ha già mutato la percezione del mondo e del destino. Per la prima volta parole e concetti che dimorano nei romanzi, quando non strettamente nella poesia - deriva, destino, insensatezza, ricerca di sé, viaggio ecc. - compaiono nei saggi di economisti, sociologi, filosofi per descrivere la ‟nuova economia”, e quindi il nuovo mondo. Di colpo, il Petrarca l’autore del De vita solitaria, che confronta il valore dell’otium con quella del negotium; l’Ariosto dell’Orlando furioso, che nel castello di Atlante immagina un luogo che imprigiona le genti incollandole ai propri desideri e fantasmi (come le merci di un supermercato); Denis Diderot che nell’Enciclopedia affronta il tema della routine con un’utopia della fabbrica partecipata; l’autore della Ricchezza delle nazioni, Adam Smith, che parla di spontaneità e di creatività, con pensieri cupi sul futuro degli uomini alienati dal modo di produzione del capitalismo industriale (niente affatto in contrasto col pensiero di Marx); oppure ancora la storia della ‟cura di sé”, della ‟conoscenza di sé”, soprattutto con la svolta che la narrazione della vita ha preso dopo le Confessioni di Agostino; e infine tutta la poesia dello smarrimento psichico, cioè della deriva, a partire da Dante; tutto questo repertorio è oggi pertinente alla condizione esistenziale della precarietà come svolta epocale della civiltà. Un libro appena uscito di Aldo Nove racconta storie di giovani vite precarie: la posta in gioco non riguarda solo il mondo della necessità, ma tutta la sfera cognitiva, affettiva e psicologica dell’esistenza. È il tempo che, con le famose parole di Shakespeare, è fuori asse. L’unico futuro è quello innestato sulle convenienze aziendali (sancito in Italia dalla Legge 30, o Biagi).
L’ormai classico saggio di Richard Sennett, L’uomo flessibile. La conseguenza del nuovo capitalismo sulla vita personale, faceva uso non a caso di modalità narrative. Per analizzare la new economy, Sennett racconta vite tratte dal mondo del lavoro, racconta storie in cui risalta la nuova dimensione temporale prodotta dalla flessibilità: ‟Il problema con cui dobbiamo fare i conti è quello di organizzare adesso le storie delle nostre vite all’interno di un capitalismo che ci prepara ad andare alla deriva. Il dilemma sul come organizzare narrativamente una vita può essere in parte chiarito indagando le modalità attraverso le quali, nell’attuale capitalismo, si fanno i conti con il futuro”. Dai mercati azionari globali, dalle strutture delle organizzazioni aziendali, dalla progettazione dei prodotti, la dimensione temporale sintetizzata nella formula ‟basta col lungo termine” condiziona le vite delle persone anche fuori dal lavoro. Per esempio, nell’ambito familiare e affettivo, il ‟basta col lungo termine” significa non dedicarsi in profondità a qualcosa o qualcuno. Non basta dire che, per la prima volta, i figli sono più poveri dei loro genitori; ma le stesse vite dei genitori risultano ai giovani precari incomprensibili, votate com’erano a obiettivi a lungo termine la cui linearità in parte compensava i sacrifici: volgendosi indietro o guardando in avanti, la vita assumeva un senso narrativo, e non è poco. Ecco qualcosa che riguarda poveri come i ricchi, i capi come i servi. Nel quadro invece della nuova economia l’esistenza ha i tratti del distacco dal senso del lavoro, della frammentazione delle esperienze e quindi dell’io, di una capacità di adattamento e di rapido mutamento, un’intensificazione del presente come unico tempo disponibile, ma di una superficialità delle interazioni sociali e della cooperazione, in spirito aziendale: tutti elementi che stanno forgiando un tipo antropologico che assomiglia molto alla dannazione: un’eternità senza tempo e senza storia.
Un giovane uomo d’affari di successo analizzato da Sennett, il cui lavoro mutevole e dispersivo lo sposta a cambiare vita, luogo, lavoro e coltivare identità plurime come uno Zelig, confessi di sentirsi stupido quando dice ai suoi figli che è importante dedicarsi a qualcosa, ‟per loro si tratta di una virtù astratta: non la vedono da nessuna parte”. Il padre del manager di successo, al contrario, aveva realizzato una vita, per quanto umile e di sacrifici, scandita da tappe visibili e descrivibili. A sua volta il manager di successo non può trasmettere al figlio concetti come dedizione, impegno, orizzonte. Quest’ultimo non vede neppure lontanamente l’importanza dell’impegno nelle vite dei genitori, e degli adulti in generale; sicuramente non sarà in grado di raccontare la propria storia né esternare un progetto di vita. È questa la società che auspichiamo?
È piuttosto risibile che oggi in Italia si insista sull’ideologia della famiglia affermandone il ruolo prioritario, quando la vita sociale ne conferma l’insensatezza e l’impossibilità. Il conflitto tra famiglia e lavoro nella nuova economia è insanabile, e chiama in causa tutto il senso dell’esperienza degli adulti: per avere successo nel lavoro, o anche solo per sopravvivere, è necessario un comportamento antitetico alla famiglia, per evitare di soccombere. Il comportamento a breve termine richiede una mentalità corrispondente, fatto di assenza di fedeltà, di tensione verso uno scopo, tutte virtù a lungo termine, l’opposto di quelle camaleontiche della nuova economia. Scrive Sennett: ‟Come è possibile mantenere degli obbiettivi a lungo termine in una società a breve termine? In che modo possono essere conservati dei rapporti sociali durevoli? Come può un essere umano sviluppare un’auto-narrazione di identità e una storia della propria vita in una società composta di episodi e frammenti? (…) Il capitalismo a breve termine minaccia di corrodere il carattere, e in particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra di loro e li dotano di una personalità sostenibile”. Per Luce Irigaray, filosofa, nessuna opera umana è possibile nella dimensione della precarietà, nemmeno l’amore. L’assenza di orizzonti lascia spazio solo a una sopravvivenza decerebrata, in balia di qualsiasi capo, ideologia, credenza.
Che questa forza-lavoro ideata per non creare disturbo possa ribellarsi e dare disturbo lo mostra tuttavia la forza della protesta in Francia - come già due anni fa la protesta contro ‟la guerra all’intelligenza”. La stessa cosa, se detta in Italia, comporta l’accusa di fiancheggiare il terrorismo. Romano Prodi si è espresso più volte contro la precarietà: ebbene, sottolineo la posta in gioco ‟narrativa” di questa immane minaccia ecologica. Solo una vita raccontabile è una vita dotata di senso. Una vita che può essere narrata è una vita che si salva (la narrazione di sé è allora un ‟dire che salva”), ciò che esattamente manca ai ‟dannati”. Il passaggio rischioso è quello da una dimensione ‟simbolica” - valori e senso del tempo condivisi - a una condizione ‟diabolica” (dyabolon, contrario di symbolon, in greco significa disgregazione, frammentazione), cioè appunto una deriva. Se il nome Unione ha un senso, dovrà riflettere sull’idea di società umana cui vuole aprirsi.

Beppe Sebaste

Beppe Sebaste (Parma, 1959) è conoscitore di Rousseau e dello spirito elvetico, anche per la sua attività di ricerca nelle università di Ginevra e Losanna. Con Feltrinelli ha pubblicato Café …