Renato Barilli: Semeghini, il pensiero debole della pittura

10 Aprile 2006
Una mostra a Mantova, Palazzo Te, si pone il quesito se Pio Semeghini sia degno di entrare nel numero dei maestri a pieno titolo del nostro primo Novecento. Conduce l’esame Francesco Butturini, spalleggiato da Elena Pontiggia e altri, nel catalogo (Silvana) di un’esposizione aperta fino al 28 maggio. L’artista (1878-1964) era nato nei pressi della città dei Gonzaga e vi era tornato a più riprese, il che giustifica il lungo e dettagliato titolo della rassegna, ‟Semeghini e il Chiarismo fra Milano e Mantova”, in cui forse è contenuta la chiave più opportuna per valutare al meglio l’apporto di questo pittore, i cui primi trent’anni circa di attività sono avvolti nell’ombra. Si sa di un suo lungo soggiorno a Parigi, agli inizi del secolo, ma proprio non si vede quale frutto riuscisse a trarne. In realtà Semeghini ‟nasce” all’arte attorno al 1910, e in un contesto totalmente terragno, di quei pittori in prevalenza veneti animati da un impulso ribelle nei confronti delle Biennali della Serenissima, che erano ferme a celebrare il secessionismo fin-de-siècle, mentre loro erano in sintonia con movimenti più bellicosi altrove, quali l’espressionismo e il fauvismo. Conduceva il gioco Gino Rossi, validamente assistito da Tullio Garbari, e dalle feroci stilizzazioni del grande scultore Arturo Martini, mentre anche altri futuri maestri come Boccioni e Casorati si affacciavano sulla Laguna nelle file dei cosiddetti ‟Espositori di Ca’ Pesaro”, il contenitore disposto ad accogliere quei conati innovativi. Ma che ci faceva, il nostro Semeghini, tra quei ‟selvaggi”, lui che viceversa fin dall’inizio si distingueva come cultore di una voce flebile, debole quanto mai, sempre sul punto di svanire nel silenzio? Questa d’altra parte era l’arma cui egli si attaccava, e che ancora oggi permette di apprezzarlo. È pur giusto far conto di qualcuno disposto a giocare con tenacia una carta a senso unico. Già allora, frequentando i temi lagunari offerti dagli immediati dintorni della Serenissima, Semeghini ci porgeva quel suo procedere, come se le immagini, di persone, paesaggi, marine, nature morte, affondassero sotto uno strato d’acqua pronto a velarle. In fondo, capita ancor oggi vedere in qualche luogo palustre un’imbarcazione affondata, resa smorta e incerta da due dita d’acqua, che è proprio l’impressione costante fornita dai dipinti di questo artista. Oppure si può capovolgere il modo di ragionare, e parlare di immagini che trasudano dallo spessore dei muri, ma pur sempre stentando a venire a galla. E dunque, si capisce che tanta ‟debolezza” non poteva farsi strada, nel coro di ‟belve” di quegli anni, alcune delle quali pronte a imboccare il tunnel roboante del Futurismo.
Non fu propizia a Semeghini neppure la stagione successiva, dei ‟ritorni all’ordine”, capeggiati dal plastico, statuario Mario Sironi, che sceglieva una chiave di svolgimento esattamente contrario a quella del nostro mantovano, impastando i suoi calchi solenni come di mota, di fuliggine. Un’ondata di tenebrismo si abbatteva sull’arte italiana degli anni Venti. Ma finalmente, alle soglie dei Trenta, i giovani di allora capirono che bisognava appunto capovolgere il trend, e andare all’improvviso ‟in chiaro”. Da qui un’etichetta conveniente come quella di Chiarismo che divenne la parola chiave degli interi anni Trenta. E in quel momento finalmente Semeghini, sempre così delicato e prossimo alla sparizione, poté diventare un capofila, anche se il termine non veniva da lui, e riguardava un drappello di giovani nati dai venti ai trent’anni dopo. La mostra di Mantova ha il pregio di documentarne la presenza, seppure per sommi capi. Ci fu prima di tutto il drappello dei Chiaristi propriamente detti, capeggiati dal più anziano del gruppo, Angelo Del Bon (1889-1952), seguito da Umberto Lilloni (1898-1980), Francesco De Rocchi (1902-1978) e altri. Le cose migliori da parte loro si avevano quando la decisione di far chiaro, di usare una tavolozza impastata di biacca, si sposava con l’intento regressivo di risalire a un’arte infantile-primitiva, prossima a un atteggiamento ‟naif”. O potremmo già usare la formula poi lanciata da Dubuffet, e parlare di un Art brut. I novecentisti ritornati all’ordine erano apparsi troppo sapienti, troppo museali, pesanti nei volumi? Bisognava contrastare tutto ciò andando all’attacco con la baionetta, rinunciando ad ogni sapienza, ritrovando un’innocenza da primo giorno della creazione. In fondo, questo ritorno alle origini si riproduce quasi con scadenze regolari, esso avrebbe dominato gli anni Trenta, sarebbe ritornato nel clima dell’Informale, poi ancora, negli anni Ottanta, sull’onda della nostra Transavanguardia o dei Nuovi Selvaggi tedeschi. Conviene insomma di tanto in tanto fare un bagno rigeneratore nella barbarie, in una pittura volutamente ‟brutta”, tirata via.
Però i Chiaristi, esattamente come Semeghini, erano tallonati dal rischio di rifluire in uno scontato postimpressionismo incline a nutrirsi degli ultimi barbagli di un naturalismo ottocentesco. Ma venne in aiuto un’ondata successiva, sostenuta dai rigori di Renato Birolli (1905-1959), il più risoluto nell’adottare i modi di un’arte infantilista, ammantata di programmatico candore, avendo a spalleggiarlo validamente gli Uomini rossi di Aligi Sassu. A Semeghini il merito di aver indicato con totale tenacia e insistenza una linea del genere, pur nella sua programmatica e costitutiva ‟debolezza

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …