Paolo Di Stefano: Sanguineti. “I proletari smarriti nella Genova senza più industrie”

14 Aprile 2006
Chi ha vissuto in questa città solo fino a vent’anni fa, oggi farebbe fatica a ritrovarsi. Non ci sono quasi più le acciaierie e il porto è diventato un’attrazione turistica. Di quello che un tempo si chiamava il proletariato sembra essersi perduta ogni traccia. Edoardo Sanguineti è nato qui nel ‘30, ma fino al ‘74 la sua città era Torino, la capitale dell’industria con la Fiat e il fulcro dell’editoria di sinistra con l’Einaudi. A Torino comincia la sua attività culturale negli anni del dopoguerra: è lì che scrive le prime poesie e i primi saggi letterari, che getteranno le basi teoriche della neoavanguardia. ‟Torino era la città proverbiale dei meridionali, ex contadini diventati operai per la catena di montaggio. Ricordo i cartelli: ‘Non si affitta a meridionali’. Genova è sempre stata una città non da catena di montaggio ma per operai più specializzati, della siderurgia e del porto. Ciò non toglie che si siano formate zone abitate di degrado molto forte accanto a quartieri residenziali. I quartieri del lavoro, invece, erano entità autonome, come Sampierdarena: c’era una cesura netta con il resto della città”. Oggi l’immigrato viene sentito, più che come un ‟barbaro”, come una minaccia da isolare. ‟Il vero dramma a Genova è cominciato con lo sfruttamento dell’immigrazione extracomunitaria: la prostituzione indigena è quasi scomparsa, sostituita dalla ‘carne fresca’ che arriva da fuori”.

Il sessantotto
Per Sanguineti, Genova significa età matura, quando il 68 è finito e il terrorismo mette a ferro e a fuoco il Paese. Genova sono gli ultimi trent’anni, giusto in tempo per assistere a un cambiamento radicale rubricato sotto la voce: riconversione. Dal caldo al freddo, dal carbone alla tecnologia, dai cantieri navali alla cultura, all’arte e al turismo, dall’operaio sindacalizzato al lavoratore flessibile o precario. Modello diversificato di sviluppo. Sanguineti ricorda la prima svolta. Le Colombiadi del ‘92. L’inaugurazione del Porto Antico, risistemato da Renzo Piano. Sorride pensando alle ‟idee geniali degli architetti che sono spesso dissociate dall’esperienza concreta e dalle questioni pratiche”. Sorride ricordando gli anni Settanta, quando ‟si smantellava tutto pur di metter su musei e centri di spettacolo”. Con un vantaggio, almeno: ‟La scoperta dei luoghi industriali è stata una vera battaglia estetica: il tentativo di valorizzare la memoria senza bisogno di affidarsi a monumenti nuovi. Marinetti lo capì subito, considerava più bella un’auto da corsa che la Nike di Samotracia”. Le trasformazioni nel lavoro sono visibili? ‟Beh, la siderurgia non c’è quasi più e le costruzioni navali sono state spostate per gran parte fuori Genova. Così, il problema dell’occupazione è diventato molto grave, perché la tecnologia finisce per ridurre i posti di lavoro.” È vero che è scomparso il proletariato? ‟Ma no, il proletariato esiste ancora, ma non sa di esserlo, non ci sono mai stati tanti proletari a Genova come altrove: però il mobbing perpetuo ha cancellato la coscienza di classe. Non c’è più quella solidarietà tra lavoratori che c’era un tempo: ognuno cerca di sabotare il vicino, lo sente come concorrente. L’esigenza è quella di essere concorrenziali non solo tra industrie ma anche tra singoli lavoratori: bisogna dimostrare al padrone che si rende più e meglio del collega.” Ognuno è imprenditore di se stesso nel segno del libero mercato? ‟È il motto di Berlusconi, ognuno deve essere pronto a tentare avventure ciniche e bare, cercando di fregare il prossimo”. Insomma, si stava meglio quando si stava peggio? ‟La catena di montaggio almeno teneva la testa libera, perché tutto sommato eri un’appendice della macchina. Oggi il modello egemone è il lavoro al computer, ognuno sta per conto proprio davanti allo schermo e perdere la coscienza proletaria è facilissimo.”
Sanguineti ricorda la tradizione tardo-ottocentesca delle società di mutuo soccorso, che a Genova ebbero un loro profondo radicamento: ‟Garantivano la tutela e il controllo delle condizioni di lavoro, organizzavano gli scioperi, vigilavano sugli incidenti, favorivano la solidarietà operaia”. La crescita della città industriale era avvenuta, tutto sommato, in maniera più funzionale e armonica? ‟Ricordo che dalle mie parti, a Genova, per anni c’era uno spazzino che fischiettava allegro la mattina, chiacchierava con la gente, conosceva il quartiere. Invece oggi il mondo è pieno di gente infelice e in stato perenne di emergenza. Il lavoro fordista e postfordista ormai è marginale e invisibile.”
Il cambiamento è visibile a occhio nudo quando dai vecchi stabilimenti di Cornigliano, dove l’Ilva è in corso di smantellamento, con le ciminiere spente, i gasometri muti e l’altoforno in disuso, si passa al quartiere Campi e alla Fiumara, tradizionalmente zone operaie dell’Ansaldo, oggi occupate da multisale cinematografiche e da affollatissimi megacentri commerciali, dove giovani e vecchi passano il loro tempo libero non solo il sabato e la domenica, tra scale mobili e altissime vetrate. Dai luoghi duri del lavoro fordista ai non-luoghi della postmodernità. Sanguineti li conosce bene: ‟È il modello americano: ti offrono tutto ciò che puoi desiderare, divertimento e ogni tipo di merce, dai fiori al trapano elettrico, dal masterizzatore alle scarpe, dai mobili agli alimenti biologici. Ci puoi passare giornate intere anche senza comperare niente...”. Mentre si passano giornate nelle oasi della felicità consumistica, le periferie a Parigi bruciano. Secondo Sanguineti ‟gli operai, gli immigrati e gli studenti francesi sono in ebollizione più che nel 68”. In Italia? ‟Siamo più alienati per il ‘privilegio’ tutto nostro di aver avuto un potere pubblicitario come quello di Berlusconi: per questo io a un certo punto arrivo ad aver fiducia nel disastro; ritengo che la gente non sia in rivolta perché è malvagia ma semplicemente perché è esasperata dalle ingiustizie e dalle diseguaglianze, dalla società di rapina in cui vive”.

L’antropologia
La letteratura è capace di raccontare questo passaggio antropologico? ‟Credo che si tratti di una situazione così opaca da diventare quasi indescrivibile. I cannibali, per qualche verso, sono riusciti a rappresentare la società di massa nell’età della globalizzazione. Nel suo primo libro, Occhi sulla graticola, Tiziano Scarpa ha messo in scena la mostruosità di massa. Lo stesso Aldo Nove, in Woobinda, racconta il trionfo del logo: per esempio quando narra di un ragazzo che uccide i genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo”. Nient’altro? ‟In Fonderia Italghisa, Giuseppe Caliceti racconta il passaggio epocale dalla fabbrica alla discoteca: un ritratto dell’alienazione giovanile e della mitologia del divertimento. Un capolavoro. Oggi per vincere la solitudine i giovani hanno pochissime possibilità: telefonare di notte alle donne dei messaggi porno, navigare in internet, stabilire contatti con un nickname, parlare al cellulare. Anche Rossana Campo, Culicchia, Isabella Santacroce raccontano momenti di vita concreta dei giovani, i loro ingorghi erotico-sentimentali, ma lo stadio lavorativo vero e proprio è irrappresentabile”. Un tempo c’era Volponi, che scriveva romanzi sul lavoro in fabbrica: ‟In Memoriale c’è lo stress del vecchio operaio, ma Volponi vedeva quel mondo da dirigente dell’Olivetti. Secondo me c’è più fabbrica nei Tre operai di Carlo Bernari, però in genere le fabbriche erano luoghi chiusi: i lavoratori non riuscivano a raccontare la fabbrica, perché avevano altro a cui pensare”.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …