Massimo Mucchetti: La banca di Siena e la (troppo) lunga attesa del promesso sposo

26 Aprile 2006
Tesoro, Banca d’Italia e alta finanza guardano da sempre il Monte dei Paschi con sufficienza e dispetto: come è possibile, si chiedono, che il quarto gruppo bancario italiano per attività sia controllato da una fondazione che risponde al Comune e alla Provincia di Siena? Questi stupori metropolitani trascurano il fatto che lo Stato, secondo i senesi, non ha mai rischiato una lira nella banca e che nel 1999 la Fondazione Mps ha offerto alla Borsa solo una minoranza azionaria. Non a caso nel 1870 il regio governo aveva qualificato il Monte come banca della città confermando, di fatto, gli statuti del XVI secolo. E nel 1936 il fascismo, pur inserendo il Monte tra gli istituti di diritto pubblico e avocando la scelta dei vertici al Tesoro, aveva lasciato il consiglio agli enti locali che 60 anni dopo, tramite la fondazione costituita con la riforma Amato, hanno ripreso la pienezza dei loro diritti. La resistenza ai diktat romani, sentiti come tentativi di esproprio, trova in questa storia le sue buone ragioni. E tuttavia di orgoglio municipale si può anche, lentamente, perire. Il Monte rappresenta molto per Siena. In una provincia di 240 mila anime, dà lavoro a 3 mila colletti bianchi, eroga un migliaio di integrazioni pensionistiche, affitta a equo canone un migliaio di appartamenti e nell’intera Toscana arriva a 9 mila dipendenti, che vuol dire 400 milioni di stipendi, e 100 milioni di acquisti di beni e servizi. La Fondazione Mps, inoltre, investe 120 milioni l’anno per opere pubbliche e assistenza nella regione. Prescindere da questi interessi sarebbe velleitario. Ma sul come soddisfarli oggi e domani, in coerenza con la scelta della quotazione, il dibattito dovrebbe essere aperto in modo più chiaro di quanto non accada in vista del rinnovo delle cariche in banca, fondazione e comune. I conti dicono che la linea del polo aggregante non ha dato grandi risultati. Il 2005, ufficialmente buono, presenta un utile di 790 milioni che dà un ritorno sul capitale del 12,2%, inferiore di 10 punti a quello di Banca Intesa; un utile che è pure sostenuto da 140 milioni di risparmi fiscali futuri a compensazione della svalutazione della partecipazione in Hopa. Nei giorni scorsi, la Banca d’Italia aveva invitato a non iscrivere a conto economico quel beneficio, ma il Monte, come altre banche bisognose peraltro, non ha modificato i conti. Si è limitato a non considerarlo nel Tier 1. Che, a quota 6,5, segnala un patrimonio di vigilanza, frutto anche di abbondanti rivalutazioni di immobili e oggetti artistici, sufficiente a sostenere una crescita modesta e non per acquisizioni. D’altra parte, l’efficienza è poca se i costi operativi assorbono il 65% dei ricavi: peggio fanno solo Bnl e Popolare Italiana. Certo, la quota della Fondazione vale 8,5 miliardi contro i 4,6 del ‘99. Ma la rivalutazione arriva dopo anni di delusioni, e solo grazie all’attesa dell’integrazione del Monte in una delle grandi banche italiane. E qui sta il punto. Se il Monte in solitario dà parecchio alla comunità, aggregandosi con gruppi più redditizi potrebbe condividere ben altri profitti e dare molto di più. Le Fondazioni Cariverona, Caritorino e Cassamarca rinunciarono al controllo sull’azienda bancaria e, aggregandola al Credito Italiano, più efficiente e stimato dalla Borsa, ebbero il beneficio del boom di Unicredito. Oggi il Monte dei Paschi può offrire una quota di mercato rilevante e un azionista di peso come la Fondazione per rilanciare una grande banca e stabilizzarne gli assetti. Ma se aspetta troppo, Siena rischia di veder svanire il suo alto potere contrattuale, perché nel frattempo il promesso sposo potrebbe essere stato scalato o aver risolto altrimenti i suoi problemi.
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Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …