Paolo Rumiz: Etiopia. I guerrieri rasta e l'impero di latta

04 Maggio 2006
‟Sì... c’era un italiano che ci insegnava a sfottere i fascisti... in italiano”. A riparlarne gli vien da ridere, al veterano etiope in divisa kaki. ‟Lui stava col nostro esercito, Paolo si chiamava. Me lo ricordo perché c’era la taglia col suo nome”. Che faceva? ‟Ci mandava di notte sotto le mura dei fortini, a gridare a squarciagola”. Cosa urlavate? ‟Le vostre mogli se la spassano con i gerarchiiii!”. E poi? ‟Gridavamo in eritreo, agli ascari collaborazionisti: le vostre se le fanno gli italianiiii!”. Abboccavano? ‟In cinque minuti scoppiava il pandemonio. I fascisti aprivano le porte e uscivano per farci la pelle. Noi scappavamo come lepri in una gola tra i monti. E lì c’era l’imboscata”. Comincia a sorpresa il nostro viaggio nella memoria, settant’anni dopo il 5 maggio del '36, quando Badoglio prese Addis Abeba e Mussolini annunciò il ritorno dell’impero romano. Gli ultimi testimoni vivi non ci sbattono in faccia le stragi fasciste. Non ci parlano dei gas, dei 700mila morti, dei pogrom, ma di misteriosi italiani nella resistenza etiope. Dell’ombra di Paolo che torna, ci chiama verso una collina piena di pioggia, oltre i palazzi coloniali, gli eucalipti nel vento, i lebbrosi, le ambasciate e le baracche di prostitute da mezzo euro al colpo. succede per caso, nel cimitero dei reduci, accanto alla chiesa dove dorme il Negus Hailè Selassiè, con un novantanne che va tra le tombe e racconta. La sua storia non lascia dubbi. L’ombra è quella di "Paulus", al secolo Ilio Barontini, da Cecina (Livorno), comunista italiano creduto francese - Paul Langlois - dalla polizia fascista. La memoria di questo Garibaldi del ventesimo secolo dimenticato dall’Italia vive ancora in Etiopia. "Aveva gli occhi folli" narra il veterano, sbarrando le pupille, come posseduto dal grande spirito. Ed evoca la leggenda clandestina del combattente di Spagna, Etiopia e Italia, che morì senza lasciar nulla di scritto. "Paulus" l’imprendibile, che insegna agli africani la guerra psicologica e l’uso delle mine, ciclostila giornali, obbliga le formazioni rivali a combattere unite, trasmette gli ordini del Negus. Nella pioggia che va verso i monti del Nilo Azzurro, tornano pezzi di memoria su questa guerra inutile e infame, inghiottita dalla cattiva coscienza di noi italiani "brava gente". Torna l’epopea dei fantastici vecchietti, ultimi cavalieri erranti dei grandi altopiani. Ci misero solo cinque anni a riprendersi il Paese, scalzi contro i cingolati e l’aviazione. Cinque anni, esatti come una cabala, fatali come una maledizione. Vinsero anch’essi il 5 di maggio, come annunciato dai loro indovini. Non era il '45 ma il '41; prima che le panzerdivisionen si impantanassero in Russia e gli alpini in Grecia. La macchina del nazifascismo si inceppò allora, davanti agli africani "razza inferiore". In Africa, si sa, non c’è confine tra la vita e il dopo. Il quartier generale dei Patrioti sta davanti al cimitero che li ospita da morti, e attende gli ultimi cinquantamila sopravvissuti della guerra italo-etiopica. Giovanotti tra gli ottanta e i novantacinque, barba argento e pellaccia dura color cuoio. I loro padri furono i primi africani a battere - nella guerra di Adua - un esercito coloniale europeo (il nostro). I loro antenati sconfissero arabi e turchi. E tutti tennero dritto nel cuore dell’Africa il vessillo della nazione cristiana più antica del mondo. Alemu Menghistu, 86 anni e sei figli, non ha di che mangiare. Ma ogni giorno si stira la divisa kaki per esserci, vestito come si deve, davanti alla sua Associazione. Lo invito a pranzo con due compagni d’arme. Mi benedice: "Dio ti ha mandato, sarai nelle nostre preghiere". Come i camerati, sa poco o niente della storia mondiale. Nessuno di loro sa di essere partigiano antifascista, di avere accelerato il ritorno della libertà nel pianeta. Gli basta di aver liberato il suo Paese. È uscito il sole, in una nube di vapore fluttua un popolo che va, con vacche, asinelli, capre. Nessuno litiga, nessuno grida, il rispetto dei vecchi è assoluto. L’Etiopia è uno struscio permanente di poveri che sorridono, e davanti a quel sorriso ti chiedi con che cuore abbiamo potuto prenderli a sprangate, avvelenarli, stuprare le loro donne. I reduci raccontano della fame nera, del cibo che non si cucinava per non dare segnali di fumo alla nostra aviazione, della selvaggia capigliatura rasta degli uomini da prima linea, dei mitici comandanti Nassibou, Ras Abebe, Ras Imru e Mulgheta. Chiedo: e oggi? "Che vuoi, amico. Non viviamo, non moriamo. Sopravviviamo". Eroi dimenticati, eppur privi della cupezza del reducismo di casa nostra. Non li ha sconfitti la guerra, ma la pace: il latrocinio dell’era globale, i massacri del comunista Menghistu, lo scontro fratricida con l’Eritrea, la corruzione, il colonialismo delle corporation mascherato da antiterrorismo. La città vecchia, un cuore mercantile che - prima di essere brevemente italiano - fu greco, ebraico e armeno. Chiese che sembrano sinagoghe, preti che cantano come muezzin, un immenso bazar di nome "Mercato", la piazza che si chiama "Piassa". Ovunque, nel bene e nel male, i segni della nostra presenza. Strade e palazzi, il bar Juventus, il monumento alle migliaia di etiopi massacrati nel pogrom - peggiore di dieci Marzabotto - ordinato dal proconsole Graziani come ritorsione per l’attentato che lo ferì nel '37. E di nuovo le tracce di un’altra Italia: quella che si ritrasse orripilata dalla politica del Fascio. L’università, gli archivi dell’Istituto di studi etiopici nell’ex palazzo del Negus, dove fu ospite Tito e Graziani fu sfiorato dalla bomba che scatenò la rappresaglia infame. Nell’ufficio che fu camera da letto dell’imperatrice, il professor Demeke Berhane mi apre una grossa busta. Sono i documenti lasciati da Alberto Imperiali, poco prima di morire, ottantenne, a Palombara Sabina (Roma) nel gennaio di quest’anno. Figlio di Cesare, un colono d’Etiopia che cooperò segretamente con la resistenza, Alberto si considerava etiope e non si fidava dell’Italia. Temeva che anche le sue carte finissero, come tante, nell’imbuto dello "scurdammece o’ passato". Così le ha spedite ad Addis Abeba. Foto impressionanti. Colonne di etiopi in fuga bombardate dall’aviazione. Lo storto, maledetto profilo dell’Amba Alagi e quello, a roccaforte, dell’Amba Aradam. Le cataste di corpi insanguinati dopo la rappresaglia Graziani, che convinse gli ultimi incerti a passare alla resistenza. E, ancora, centinaia di tukul messi a fuoco, nobili etiopi in partenza per la detenzione in Italia. Corpi di uomini e asini, uccisi dai gas vescicanti sulle sponde del lago Ashangi. L’abbattimento notturno della statua equestre del Menelik, vincitore ad Adua. La testa decapitata del Degiach Hilù, esibita da allegri italiani come un melone, insaccato in una trama di corde con l’impugnatura a treccia. "Sono stato amico di Imperiali", racconta Demeke. "Come suo padre, anche lui aiutò la resistenza etiope. Aveva un motociclo, e con quello scarrozzava i capi della guerriglia, Daniel Abebe Therson, Ras Abebe Aregai". Alberto, lo sanno in Italia i pochi che lo conobbero, come i venticinque soci dell’Associazione Exodus di Carmelo Crescenti, morì con la rabbia per una "vergogna nazionale rimossa" e col desiderio di sapere se i suoi compagni d’avventura fossero ancora vivi. Comunista scomodo, di parlata schietta, polemizzò con ex partigiani per quella che riteneva una conciliazione nazionale prematura. "Perché - diceva - mi invitate alle vostre rievocazioni? Io vi ho sparato contro". Un tè nel giardino di Richard Pankhurst, storico inglese ottantenne che - come il nostro Del Boca - lavora da una vita per scoperchiare il pentolone. "Non c’è mai stata una Norimberga - taglia corto - per i crimini dei fascisti in Etiopia. Eppure le evidenze ci sono. Terribili". Tira fuori altri nomi di italiani della resistenza. Antonio Uckmar detto "Johannes". Bruno Rolla detto "Petrus". Paolo De Bargili, che con Barontini raggiunse l’Etiopia via Khartoum subito dopo la guerra di Spagna. "C’era anche un siciliano, Saverio Sbriglio si chiamava. Era dottore, curava i feriti etiopi anche se le leggi razziali non lo consentivano. Quando i fascisti vennero per arrestarlo, si diede alla macchia con i ribelli, divenne il loro medico sulle montagne del Nordovest". Come mai se ne sa così poco? "Alcuni militari che furono teneri con gli etiopi - racconta Pankhurst - fecero una brutta fine. Vennero uccisi dai fascisti nei campi di prigionia inglesi dopo il 5 maggio del '41. Di un caso ho la documentazione". Altri soldati e camice nere furono rimpatriati prima: ragazzi che si ribellavano alle prepotenze razziali o si innamoravano delle "belle abissine". "Macché missione civilizzatrice, loro erano migliori di noi", diceva il friulano Giacomo Corona detto "Giarabub", che fino alla morte andò col cappello coloniale alla processione della Quaresima. "Il vero uomo nero eravamo noi", brontola ancora Carlo Cataldi da Bologna, anni 93, rimpatriato prima del termine. Anche allora c’erano, a fronteggiarsi, due Italie. Chiesa di San Tekle, assediata da mendicanti e bambini magri nelle pozzanghere. Dentro, c’è uno "slum" nel cimitero, morti e vivi che abitano assieme. Cerco i monaci, la storia del primo massacro di Debre Libanos, la città delle chiese dove Graziani passò per le armi cinquecento religiosi, rei di avere predetto la rapida fine dell’impero. Alto, ossuto e splendente, in una gran tunica bianca, padre Wolde Amanil, 82 anni, spiega che "se gli occupanti non avessero ucciso a quel modo, forse oggi ci sarebbe ancora l’Italia in Etiopia". Eravamo fratelli, aggiunge allargando le braccia, "ma è proprio tra fratelli che si litiga più duramente". Quella strage, lo dicono i numeri, fu all’altezza del peggior terrorismo islamista. Ma non ha mai sfiorato la nostra coscienza di cattolici. Ancora tombe e lebbrosi, lapidi e mendicanti, donne silenziose ed eucalipti strepitanti di uccelli come una foresta amazzonica. Il buco nella memoria si allarga. I vecchi se lo ricordano. Il 5 maggio '36 non fu affatto la fine della guerra. Cominciò, invece, la parte più feroce del conflitto. Gli italiani controllavano solo le strade, la resistenza continuava imperterrita. Mussolini era fuori di sé dalla rabbia, da Addis Abeba partivano ordini di rappresaglie contro i civili. L’uso dei gas continuò, anche se nei villaggi erano rimasti solo i vecchi, le donne e i bambini. Il monaco ci porta da un altro monaco, più vecchio di undici anni: padre Mengheshà. Veneratissimo, vive in una baracca piena di santini, candele, rosari, croci e cartoline. Narrano che anni fa andò in Italia invitato da altri etiopi, e quando entrò a San Pietro in Roma, una folla di fedeli, riconoscendone la santità, gli si strinse attorno con uno strepito tale che dovette intervenire il servizio d’ordine. Portamento da re, capelli rasta, occhi febbricitanti, tunica rossa, al contrario di padre Wolde il grande vecchio stava con gli italiani. E il Negus, al suo ritorno, lo sbatté in galera per otto anni in un sotterraneo. Ma con gli italiani il Negus non volle rappresaglie. Tornato sul trono, ordinò alla gente di non torcerci un capello. Anche di questo ci siamo dimenticati. "Mio padre ospitò trecento italiani e diede loro scorta nei giorni della sconfitta" racconta Daniel Jote Mesfin, un pezzo d’uomo, figlio del Ras Mesfin allora maggiore della guardia imperiale. Chiede come accedere ai nostri archivi, perché "qui non hanno conservato quasi niente di scritto". Capita che un etiope chieda a un ex nemico italiano di trovare notizie su questo o quel massacro. "Venga in Italia" gli dici, ma spesso lui non ha i soldi per pagarsi il viaggio. Così continua il gioco a nascondino con la memoria, e Roma se la cava con la stele di Axum, un bell’obelisco restituito. Dopo settant’anni, chissà che non arrivi il tempo di chiedere scusa. E rendere omaggio a un grande popolo fratello.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …