Paolo Di Stefano: Giro d’Italia. Motta, ciclista-testimonial dell’Italia del boom

25 Maggio 2006
‟Si vedeva subito che andavo forte”. Era il ‘66 e Gianni Motta era il nuovo che avanzava nell’Italia del boom. E lui quarant’anni fa sui pedali avanzava di brutto. Vinse il Giro con il ginocchio sinistro distrutto l’anno prima per un incidente: cadde e una macchina gli passò sulla gamba. Ma non perse l’allegria. E la generosità. La crono non era il suo forte, però quell’anno, a Parma, perse solo un minuto da Adorni. Aveva imparato ad amministrarsi combattendo contro la propria generosità che gli imponeva di partire in fuga pur sapendo di poter vincere facile in volata. Era fatto così. Lo ricorda anche Alfredo Martini, qui alla partenza di Pontedera, elegante come un giovanotto: ‟Bisognava tenerlo a freno, esagerava sempre, però aveva una classe eccelsa”. Motta ricambia la stima, e ricorda gli altri suoi consiglieri: Colnago, Albani e Dante Brambilla, ‟una specie di prevosto, tutto quello che diceva lo ascoltavo, volevo riuscire a tutti i costi, forse per questo ero troppo generoso”. E in quel Giro del ‘66? ‟Saltavo tutti, anche gli scalatori”. Anche Gimondi? ‟Anche Gimondi. Io stavo con la Molteni, una squadra molto più familiare della Salvarani, che era moderna e organizzata”. Se deve fare un confronto con l’oggi, pensa a sé come a un Cunego e a Gimondi come a un Basso. ‟Due caratteri diversi. Il primo è un bel fiulèt, l’altro è un tipo molto serio”. Le cronache raccontano che per Gianni tornarono presto i guai fisici. ‟Già nel ‘67: piangevo in corsa dal dolore”. Qualche vittoria però arriva ancora, persino contro il mostro Merckx. Il passaggio alla Salvarani, nel ‘70, lo ricorda di sfuggita: ‟Uno scoop pubblicitario, mettermi insieme a Gimondi, il mio rivale”. Ne soffriva la concorrenza, non andarono mai d’accordo. ‟Ormai con l’età siamo diventati meno spigolosi, però gh’è nien de fa’, restiamo due tipi diversi. Ci rispettiamo. Lui è serio e sornione, a me piace scherzare”. E si vede. ‟Dicevano che ero una testa calda ma ero solo vivo e contento, avevo preso da mia madre; mio padre meno, perché lavorava la terra dalle sei del mattino. Continuavo a dirgli: papà smettila! Macché, nient, nient, nient...”. A 63 anni, Motta ha la stessa faccia e la stessa follia degli anni in cui, da ragazzo, cominciò a insaccare budella, a fare il calzolaio, a suonare la fisarmonica per i matrimoni del suo paese, Cassano d’Adda, e dintorni; a girare le cascine per ritirare il latte caldo; a fare il saldatore. Stessa faccia e stessa follia di quando decise di portare a casa uno stipendio correndo in bicicletta (‟mia madre non voleva: aveva paura del traffico”, sorride). Negli ultimi anni da corridore, pensava a vendere bici, materassi e mobili, e in corsa si informava se era arrivato il filato per il suo maglificio. E ancora oggi non riesce a fare una sola cosa: è testimonial di Mediolanum, accompagna gli ospiti pedalando per una sessantina di chilometri ogni mattina. Poi: pubbliche relazioni (con pranzi, autografi e fotografie). Poi: commercio e rappresentanza per la Zuccheri Italia. I suoi clienti sanno che, anche se la testa bionda è diventata bianca, è sempre il Motta del ‘66: ‟Mamma mia, godo un mondo a vedere che la gente mi vuole ancora bene. Mi manca solo di sapere che cosa avrei fatto senza l’incidente, però ho imparato che ogni tanto una batosta ci vuole, ti fa vivere con i piedi per terra. Comunque, sai, ho fatto una gran bella vita...”.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …