Carlo Maria Martini: Il luogo segreto dove è possibile il dialogo tra le religioni

13 Giugno 2006
Confesso apertamente che i primi anni di studi filosofici sono stati per me molto difficili, e oserei dire noiosi. Devo ammettere che non amavo molto questa materia, benché non mi mancasse il tempo da dedicare a una formazione filosofica completa. Come gesuita, ero tenuto a studiare filosofia teorica per tre anni, secondo i metodi in uso a quei tempi, quanto meno in Italia, nella Società di Gesù, che seguiva rigorosamente la tradizione neoscolastica. Si studiava logica formale, epistemologia, metafisica, cosmologia, psicologia filosofica, etica e la cosiddetta dottrina teologica naturale, chiamata teodicea. Ma come ho detto, non mi piaceva troppo questa materia. Indubbiamente, come i nostri insegnanti non si stancavano di ripetere, era uno studio utilissimo a formare la mente alla chiarezza e alla perspicuità del pensiero; ma a me sembrava in generale troppo astratto e lontano dalla realtà. Non credevo di potervi trovare un aiuto reale per affrontare il mondo contemporaneo.
Dopo quei tre anni, incominciai a dedicarmi allo studio delle Sacre scritture. Imparai l’ebraico, l’aramaico, il greco e altre lingue, e incominciai a leggere e a tentare di interpretare i libri della Bibbia, con l’aiuto degli strumenti critici e secondo il cosiddetto metodo storico-scientifico.
Non tardai a rendermi conto che il linguaggio della Bibbia era alquanto diverso dalle forme d’espressione del mondo moderno; e incominciai a chiedermi in che modo quello biblico si ponesse in relazione con questi altri linguaggi, parlati nella vita quotidiana, al mercato, sull’autobus o in treno; o col linguaggio dell’amore umano, del lavoro umano - soprattutto nel mondo contadino - o con quello usato per trasmettere alle nuove generazioni le semplici regole che ci consentono di entrare in relazione col nostro prossimo, e di sopravvivere alla competizione quotidiana della vita. Ovviamente, il linguaggio della Bibbia ha molte analogie con questi modi di esprimersi contemporanei, forse con l’eccezione del linguaggio etico e morale, che nelle Scritture è di gran lunga più assoluto e impegnativo. Ma il problema si avverte più acutamente quando cerchiamo di comprendere come il linguaggio biblico si rapporti alle diverse forme del linguaggio scientifico: quelle della matematica, della geometria, della fisica moderna, della biologia, dell’astrofisica, della meccanica quantistica e così via.
Mi sono trovato così a confronto con problemi di linguaggio diversi, ma interrelati tra loro. Vorrei elencarne alcuni. 1. In che modo il linguaggio della vita quotidiana (quello che si usa per strada, al mercato o in famiglia) si rapporta ai linguaggi delle diverse branche scientifiche? 2. Esiste un linguaggio specifico, che serva ad esprimere la profondità dell’anima e le grandi questioni esistenziali della vita? E se esiste come linguaggio a sé, in che rapporto si pone con gli altri tipi di linguaggio, in modo da consentire una comprensione reciproca? 3. Quello che troviamo nella Bibbia è un linguaggio speciale e separato, o piuttosto una variante degli altri tipi di linguaggio? Tutte queste domande portano a un problema molto pratico: esiste la possibilità effettiva di un dialogo tra religioni e culture, o anche tra i religiosi e i filosofi di orientamenti diversi? [...].
Ma stando così le cose, le differenze di linguaggio tra le varie scienze non dipendono in primo luogo da un diverso modo di ragionare, bensì dalla diversità dei dati. Doveva essere possibile allora comparare i linguaggi, non tanto attraverso il loro contenuto, ma piuttosto prestando attenzione al modo in cui arrivano a determinate conclusioni.
La lettura di alcuni recenti libri di analisi filosofica mi ha portato a vedere in questo processo un esempio del metodo generale mediante il quale si accede alla conoscenza. La verità su un determinato oggetto non sta semplicemente nel nostro tentar di vedere ‟quello che c’è da vedere”, ma è il risultato di un processo le cui tappe sono quasi sempre le stesse, e che consente un giudizio solo alla fine del processo stesso.
Questo, in un certo senso, è vero anche per il linguaggio ordinario della vita quotidiana; ma con la differenza che il linguaggio comune – quello che si usa per strada o al mercato – definisce le cose come sono percepite dai sensi, e come si pongono in relazione con noi; mentre il linguaggio scientifico cerca di descriverle nei loro rapporti reciproci.
Ma una volta compreso questo, non vi è un abisso insormontabile che impedisca di passare da un linguaggio all’altro – e nessun linguaggio è autorizzato a disprezzarne un altro, ma deve riconoscerne gli intenti e il modo di ponderare le cose. Così il dialogo tra i linguaggi diventa possibile.
Il vantaggio di questa visione sta nella possibilità di apprezzare tutti i linguaggi, valutandone la caratteristiche e le peculiarità. A questo punto si può comprendere perché le persone si esprimano in modi diversi – anzi, in modi apparentemente diversi - toccando però sostanzialmente la stessa realtà, anche se a differenti livelli.
La Bibbia, in effetti, si esprime solitamente in un linguaggio comune, con largo uso di simboli, di proverbi, di parabole, di esempi e di storie, e a volte anche di paradossi o espressioni provocatorie. E in questo modo tenta di esprimere i fatti e i valori così come sono percepiti dalla nostra sensibilità ed emotività. Dal canto suo, il linguaggio scientifico cerca di descrivere le cose nei loro rapporti vicendevoli e obiettivi, prescindendo (nella misura del possibile) dalla personalità dell’osservatore. Ma una volta compresa questa differenza, non c’è più motivo di scandalizzarsi del linguaggio semplice della Scrittura, che pur avendo fini e obiettivi diversi da quelli di un’affermazione scientifica, ha la sua verità, la sua dignità e il suo intento.
Qui vorrei alludere a un altro grosso problema, strettamente legato al nostro modo di vedere, e che getta una luce nuova soprattutto sulla questione del dialogo tra religioni e credenze. Finora abbiamo parlato della conoscenza della realtà e dei fatti. Ma cosa accade se la nostra comprensione è confrontata non con semplici fatti, ma con la realtà della persona, dell’altro che sta di fronte a me? In questo caso non è solo questione di conoscere i fatti, ma di comprendere le persone. Il linguaggio allora non serve solo a descrivere i dati, ma deve esprimere l’incontro con una persona e col suo mistero. Il linguaggio dei fatti non basta più. Abbiamo anche bisogno di quello che chiamiamo il linguaggio del cuore, della simpatia, dell’amore. E questo linguaggio ha una sua legge speciale.
Mi sia consentito a questo punto citare le parole di un filosofo moderno, Bernard Lonergan, che afferma: ‟Un tempo si diceva: Nihil amatum nisi precognitum. La conoscenza precede l’amore... C’è però una piccola eccezione a questa regola, quando le persone si innamorano; e questo innamorarsi è fuori proporzione rispetto alle sue cause, alle sue condizioni e occasioni, ai suoi precedenti. Perché innamorarsi è un nuovo inizio, un esercizio di libertà verticale, nel quale il mondo di ciascuno di noi sperimenta una nuova organizzazione”. E ciò è particolarmente vero nel caso di quella conoscenza speciale che è l’incontro col mistero più profondo della vita, con quello che per Tillich è ‟the ultimate concern”, e che molti di noi chiamano ‟il mistero di Dio”. Come dice nel seguito Bernard Lonergan, ‟la maggior eccezione al concetto espresso nella citazione latina è il dono dell’amore di Dio che si riversa nei nostri cuori. Allora siamo nello stato dinamico dell’innamoramento (Lonergan, Method, p. 122). In questo misterioso movimento del cuore sta la capacità morale del trascendere se stessi verso un compimento, una pienezza che porta a un’intima gioia, a una pace profonda. Il nostro amore ci rivela valori che prima non avevamo apprezzato: valori quali la preghiera, l’adorazione, il pentimento e la fede.
Esistono due vie per la conoscenza umana: quella ordinaria per comprendere i fatti, che incomincia dai dati, suscita un’ipotesi per darne una spiegazione, elabora le condizioni per la convalida o la confutazione di quei dati, soppesa le prove favorevoli o contrarie all’ipotesi, e giunge infine a una conclusione certa o probabile (che resta ovviamente aperta alla revisione e al ripensamento a fronte di dati nuovi).
Una seconda via è quella dell’incontro col mistero della persona umana, che pure prende le mosse dai dati, ma cerca di comprendere l’altro in un’atmosfera di simpatia (o di antipatia) e di amore (o di odio).
Nell’una come nell’altra si possono discernere i tratti generali di un atto cognitivo, al fine di poter comparare i linguaggi e i modi di comprensione. Ciò è possibile anche nel caso di una conoscenza umana molto particolare: quella che nasce dall’incontro col supremo mistero della vita, con quell’ultimate concern che chiamiamo la realtà di Dio. In questo caso, noi sentiamo in maniera particolare che non potremmo sperimentare ed esprimere l’amore se prima non fossimo stati amati, di un amore che viene dall’alto.
Io penso che questo dono dell’amore, che in qualche modo precede la cognizione, sia offerto a tutti, e sarà d’aiuto alle persone appartenenti alle diverse religioni per arrivare a una comprensione comune dei rispettivi linguaggi. Questo intendeva, credo, il Concilio Vaticano II quando affermava, nel 1965, che in questa nostra era, in cui gli uomini si avvicinano sempre più tra loro e si rafforzano i legami d’amicizia tra i popoli, la Chiesa esamina con maggior cura il suo rapporto con le religioni non cristiane. Nella costante consapevolezza del suo dovere di promuovere l’unità e la parità tra gli individui e tra le nazioni, essa porta avanti fino all’estremo la sua riflessione su quanto gli uomini hanno in comune, e su ciò che aiuta a promuovere i legami d’amicizia tra loro (Unitatis Redintegratio, 1).
Ma qui, come vedete, mi sto addentrando in un argomento nuovo e molto importante, un tema che sarà meglio lasciare per un’altra occasione.
Vorrei tuttavia esprimere una certezza: il dialogo è possibile, sia tra i linguaggi che tra le culture e le religioni. Sarà allora più facile per tutti capirsi a vicenda, e comprendere le tradizioni spirituali altrui. Nei momenti in cui un linguaggio arriva a quella profondità che chiamiamo interiorità e preghiera, riesce a raggiungere significati e valori anche più profondi, ai quali qui posso solo accennare. Ma vorrei sottolineare che quello dell’interiorità e della preghiera è il luogo in cui si incontrano tutti i sinceri ricercatori della verità e della giustizia, dove è realmente possibile superare la diversità dei linguaggi. Solo procedendo su questa via si possono trovare le profonde motivazioni di quella comprensione, di quella fiducia reciproca di cui sentiamo la grande importanza nella nostra attuale situazione.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Carlo Maria Martini

Carlo Maria Martini (Torino, 1927 - Gallarate, 2012), cardinale dal 1983, è stato arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002. Gesuita e biblista di fama internazionale, tra il 1964 e …