Renato Barilli: Che bella generazione quei barocchi!

21 Giugno 2006
Senza alcun dubbio il tema di Roma barocca è uno dei più alti che si possano affrontare, in ambito artistico, soprattutto se misurato su tre punte di valore assunto quali sono state Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), Pietro da Cortona (1597-1669) e Francesco Borromini (1599-1667). Fra l’altro, la prossimità nelle date di nascita di questi tre straordinari protagonisti sta a dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, la forza cogente del criterio ‟generazionale”, e non certo per influsso delle stelle: vuol dire che quando i tempi sono maturi, quando i dati sociali, economici, stilistici si fanno stringenti, i talenti arrivano, se solo c’è un po’ di aiuto del caso. E dunque, l’aver dedicato a questo nodo di grande rilievo una mostra, seppur a livello documentario, è un titolo in più che conferma l’audacia e l’intraprendenza del responsabile del polo museale romano, Claudio Strinati, pronto del resto ad appoggiarsi all’alta competenza in materia di Paolo Portoghesi e Marcello Fagiolo, che vi si cimentano validamente da tempo.
Vista l’importanza di questo pacchetto problematico, c’è invece da manifestare qualche perplessità sul luogo scelto per esibirlo, Castel S. Angelo, un contenitore non dei più opportuni per due ordini di ragioni: intanto, perché è luogo consacrato ai flussi di un turismo alquanto sprovveduto, che vi accorre per attrazioni esteriori, quasi come succede per il Colosseo, e dunque una simile massa di turisti di base è impreparata, a gustare davvero le complesse motivazioni di una mostra del genere (fino al 29 ottobre, cat. Electa); e si aggiunge una ragione più sottile, che le sale centrali del Castello sono già ‟occupate” da un episodio di grande merito, la decorazione di gusto manierista, affidata a Perin del Vaga dal pontefice Paolo IV, un secolo esatto prima del compiersi dei grandi eventi di Roma barocca: il linguaggio sofisticato, a grottesche, a colori aciduli e svenevoli, dei Manieristi è quanto contrasta di più con la grandiosa ‟modernità” di Bernini e compagni; e dunque, meglio era attendere che un contenitore più appropriato si rendesse disponibile per questa pur irrinunciabile occasione.
Ma visto che il banchetto è offerto, seppure in spazi un po’ angusti, apprezziamone l’indubbia eccellenza, il che può avvenire dedicando di passaggio un omaggio a un ‟romano” d’elezione dei nostri tempi, a Giulio Carlo Argan, che ci ha fornito la chiave esatta per valutare il genio berniniano, sottraendo il barocco a quel senso di irregolarità scapricciata in cui avevano preteso relegarlo i classici e neoclassici dei tempi successivi. Il barocco è un linguaggio pieno, maturo, moderno per grandiosità d’impianto, per imponenza di soluzioni, e per l’eredità che gli viene dalla modernità già compiuta del triangolo rinascimentale, Bramante-Michelangelo-Raffaello. Il simbolo del barocco berniniano sta nell’ellissi del porticato di S. Pietro, ma come dimenticare che l’astronomia, vera pietra di fondazione del moderno, aveva esordito stabilendo proprio che i pianeti tracciano orbite ellittiche attorno al sole? E dunque questa curva, lungi dall’inclinare all’estro e alla bizzarria, conferma la meccanica dei gravi, diviene struttura portante di un razionalismo giustamente inteso. Sappiamo bene del resto, e gli apparati didattici della mostra confermano, che la grandiosità del porticato di S. Pietro è confermata dalle ulteriori stupende invenzioni berniniane del Baldacchino e delle colonne tortili, all’interno, tutti elementi in cui appunto la modernità si rivela con volto dinamico. Pietro da Cortona, a sua volta, conferma, anche se le sue proposte architettoniche sono andate per la maggior parte perdute, ma a giudicare dai documenti che ci restano (del Palazzo-Fontana di Piazza Colonna, del cosiddetto Pigneto Sacchetti), anche lui ragionava in termini di edifici pulsanti, con estrusioni e rientri ritmici, con animatissimo gioco chiaroscurale. Del resto è ahimé esistito quello che qui in mostra viene eloquentemente detto il ‟barocco interrotto”, cioè alcuni progetti magnanimi che non sono andati in porto, e forse il fallimento più grave vide proprio accomunati il Bernini e il Cortona, quando vennero chiamati a progettare il Louvre, a Parigi: tanta era l’eccellenza raggiunta dalla Roma barocca, che perfino il Re Sole non voleva farne a meno: e Bernini per l’occasione ricorse a una soluzione degna di lui, con facciate flesse, mentre anche il Cortona ragionava muovendo in profondità le pareti. Ma, per sfortuna del Louvre, le proposte geniali dei due Barocchi romani non passarono, e i parigini si dovettero accontentare dell’attuale soluzione triste, massiccia, inanimata.
Torniamo ad Argan che, perfetto nel darci la giusta chiave per intendere il barocco berniniano come discorso largo d’impianto, fondato su una ragione alleata ai sensi e alla persuasione retorica, ci consente pure di capire quanto invece se ne differenziasse il discorso del terzo grande, del Borromini, per il quale giustamente suggeriva un’ipotesi di neo-manierismo: se infatti il Bernini e il Cortona, ciascuno a suo modo, ‟aprono”, sommuovono le pareti, le estroflettono con l’intento di abbracciare lo spazio, il Borromini ‟chiude”, ribadisce le medesime curve su se stesse, le attorce, le imbullona, per così dire, come si può giudicare dalle piante, in mostra, di alcuni dei suoi capolavori, l’edificio di Propaganda Fide in Piazza di Spagna, l’Oratorio dei Filippini.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …