Giorgio Bocca: Pozzo, Meazza e Piola. L’Italia a misura d’uomo

07 Luglio 2006
L’estate rovente dei mondiali di calcio arriva per ogni generazione di italiani, riempie le piazze di bandiere e di follia, di occhi dilatati e di urli, di democrazia totale, capi dello Stato e poveracci con il cappello di carta dei muratori, ambulanti, mendicanti. Tutti insieme, travolti da quell’irresistibile rialzo del tono della vita delle notti "magiche", dei cortei cittadini, nel rimbombo dei clacson. La marea dei simpatizzanti e le minoranze maniacali degli antipatizzanti, i gruppetti che tifano contro.
Ai miei tempi gli amici di Cancogni, e di Fusco gli anarchici della Versilia, oggi quelli della Lega riuniti nei dopolavoro di Lecco o di Garbagnate a tifare Germania federale contro gli azzurri. Qualcosa comunque da non prendere sul serio perché la nazionale di calcio è davvero nazionale, è la nostra storia, la nostra potenza. Tre volte campione del mondo, sei volte finalista dei campionati mondiali, o candidata alla vittoria o impegnata nelle ricostruzioni dopo le batoste. Ci fu un commissario tecnico, il romano Bernardini che, per rimetterla in piedi, convocò un centinaio di giocatori, come i consoli che battevano il piede nelle terre del Bruzio o del Piceno e facevano rinascere gli eserciti.
Il mio rapporto magico e isterico, indissolubile e irragionevole, meraviglioso con la nazionale di calcio dura dai tempi in cui si recitava come un rosario la formazione sacra Combi Rosetta Caligaris, una litania dei santi, Pietro, Paolo, Giovanni. Ed è passato attraverso tutti gli eroi delle rivincite, i Meazza e i Piola degli anni Trenta. Il Baggio divin codino, il Riva Rombo di tuono, gli abatini Rivera e Mazzola su fino all’apoteosi dell’82, con il più italiano degli azzurri, il Paolo Rossi che inchioda gli avversari con i suoi gol fulminei come stilettate. Ma la nazionale di calcio della mia vita è stata quella bicampione del mondo degli anni Trenta, una combinazione di potenza e di povertà, di mondialismo e di provincialismo, di orgoglio e di modestia. Se ripenso ai raduni di quella nazionale nella mia città, a Cuneo, faccio fatica a credere in tanta modestia. La imponeva Vittorio Pozzo, un tipo di alpino e salesiano arrivato chissà come alla guida degli azzurri senza essere né un allenatore di professione né un burocrate dello sport ma semplicemente un piemontese risorgimentale ciecamente convinto delle virtù piemontesi. Uno di quelli per cui la parola sacra è "el travail". Già allora i campioni del calcio avevano degli stipendi altissimi rispetto a quelli normali e lussi e piaceri da ricchi. Ma Pozzo li considerava dei soldati e li trattava come degli operai.
L’albergo che aveva scelto per loro era di quelli che oggi sono a una o due stelle: senza garage, senza ascensore, senza sala per i convegni, con i lettini che cigolano con le stanze a due letti ed era lui a decidere chi doveva dividerle con chi. Era un alberghetto nuovo dalle parti della stazione nuova, quella con il faro, un tubo di cemento alto una cinquantina di metri che faceva pensare ai lampioni della aneddotica cuneese accesi di giorno per le visite del re, lo stesso che se chiedeva una pianta della città gli mostravano un pino. E penso che avesse ordinato ai giocatori di arrivare a Cuneo in ferrovia perché davanti all’albergo non si vedevano le auto di lusso che già allora piacevano ai campioni.
L’albergo aveva un piccolo dehor cintato da siepi di mirto attorno a cui stavano i tifosi e i curiosi ma senza disturbare, secondo le raccomandazioni che Vittorio Pozzo aveva impartito. Il commissario unico era un ufficiale degli alpini e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti.
Ricordo il mattino che stavo in piazza Vittorio e d’improvviso dai portici dove passa la tramvia per Borgo San Dalmazzo e la valle Stura esce in formazione di ordine chiuso il plotone degli azzurri, tutti nell’uniforme blu con cravatta regimentale. In testa Pozzo seguito da Meazza e Piola con la corona di fiori. Nella grande piazza rettangolare il plotone prende la diagonale che porta all’uscita del ristorante Tre Citroni e del Caffè Alfieri.
Inquadrati e al passo verso il monumento all’alpino che sta nei giardini pubblici, il micro monumento con l’alpino ignoto di piccola statura che sta in tutti i giardini pubblici delle città piemontesi per non parlare di quelle liguri e toscane che sono anche più avare nelle misure. La posa della corona, tutti sugli attenti e dietrofront si torna al campo sportivo Monviso per le due ore di ginnastica del mattino. La partitella di allenamento, dato il caldo, si svolgeva nel tardo pomeriggio ma noi ragazzi eravamo già davanti l’albergo da ore, ciascuno con il suo campione prenotato per portargli la valigetta con mutandine e scarpe bullonate. E sembrava naturale, molto piemontese, molto alpino che gli azzurri non avessero un pulmino per fare il chilometro fra l’albergo e il campo sportivo, e che non ci fosse un servizio di lavanderia negli spogliatoi e che ognuno badasse a se stesso facendo portare la valigetta dai tifosi. Ma quella modestia era naturale in una città dove il legno era ancora dominante, di legno i banchi del mercato e delle scuole su cui generazioni di alunni avevano scavato canyon meravigliosi con i colori della valle di Giosafat e del Mar Morto, blu scuro, argentei, violacei.
I pennini rotti e piantati per ricavarne musiche meravigliose che invano i professori cercavano di far tacere. Se ci penso ho una misura della mia lunghissima vita: sono uno che ha fatto in tempo ad andare in vacanza in montagna su una diligenza a cavalli affittata con il vetturino dal carrettiere Cuniberti di origine burgunda immagino. Notti magiche, ma anche giorni di dissociazioni di massa, di irrazionalità dominanti, di pulsioni folli, di ipocrisie gigantesche. Nello stesso giorno milioni di concittadini seguono in crescente delirio la vittoria degli azzurri sulla Germania. Nell’occasione da entrambe le parti si è ricorsi alle inimicizie e alle accuse più infantili e banali: ipocriti, mangiatori di pizze, ubriaconi di birra, mandolinisti. Come se il ritorno alle faziosità infantili delle masse sportive preferisse alla ferocia reale e recente della storia le risse da fiera e da baraccone.
Popoli come il tedesco e l’italiano che si sono scannati nei venti mesi dell’occupazione nazista, della resistenza, del collaborazionismo divisi dal calcio non trovano di meglio che accapigliarsi sul folclore, sui luoghi comuni, sui cibi e bevande. E sullo sfondo una fuga dalla realtà, un ricorso a giustizialismi assurdi, una caccia alle streghe, una comparsa di stregoni ed esorcisti: quelli che scoprono l’inferno del calcio, quelli che vogliono guarirne il marcio in modo chirurgico, quelli che invocano la purificazione fingendo di ignorare che il calcio come tutto il resto del nostro modo di essere, di vivere è dominato dalla ricerca ossessiva del denaro, dall’uso asfissiante della pubblicità pansessuale, con il ricorso alle retoriche più viete. Abbiamo partecipato in questi giorni ardenti e irruenti dietro una palla di cuoio che va dove vuole, a recite dell’assurdo incredibili.
Un’operazione colossale di immagini, notizie, riti e miti è riuscita a dividere, a separare come incomunicabili due mondi, in realtà permeati l’uno dell’altro. Il mondo dei campioni che si disputano il primato sportivo e quello dei burocrati e affaristi che gravita sul calcio come affare. Il primo popolato da atleti giovani, belli e innocenti da adorare, da imitare, da celebrare, il secondo da parassiti, da ladri, da delinquenti. Ma siccome la ragione queste semplificazioni non le consente finisce che la separazione fra gli atleti innocenti e i dirigenti mascalzoni si risolve in un macello generale. Gli atleti eroi della Juventus e del Milan che hanno ottenuto sul campo la vittoria sportiva vengono retrocessi, multati, penalizzati, accusatori impietosi e presuntuosi falciano tutti i fiori del campo pur sapendo benissimo che immaginare un calcio onesto e disinteressato in una società avida e marcia è una pura illusione. Ma come effetto palingenetico questa assurdità, queste contraddizioni fanno il loro effetto, il loro grande rumore. Sono uno degli aspetti di una transizione in cui non si sa in cosa credere, come e in che cosa identificarsi. Quale lingua parlare, quale scienza usare.
Notti magiche, notti roventi. La riscoperta di un nazionalismo senza nazione, di un patriottismo senza patria, di un’etica senza morale. Un caos appassionante dietro una palla che va dove vuole.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …