Massimo Mucchetti: Le privatizzazioni dal mito di Wimbledon alla realtà del Senato

27 Luglio 2006
Il 27 febbraio 2005 Tommaso Padoa-Schioppa ha scritto per il ‟Corriere” un editoriale sul patriottismo economico intitolato ‟L'effetto Wimbledon”. L'ex banchiere centrale citava il celebre torneo di tennis quale modello di promozione dell'interesse nazionale avendo per orizzonte il mercato globale. Wimbledon, infatti, rappresenta un fiore all'occhiello del Regno Unito non perché sia appannaggio dei tennisti inglesi, ma perché sa conquistarsi regolarmente la partecipazione dei migliori del mondo. Se gli organizzatori manomettessero le regole per far vincere un atleta locale, il prestigio del torneo ne risulterebbe compromesso e sarebbe una perdita per la nazione. Il mito di Wimbledon valeva e vale anche per l'economia italiana. E Padoa-Schioppa non risparmiava gli esempi - dalla Fiat all'Alitalia alle banche - dove c'era la tentazione di ‟far vincere” il tennista di casa. Chi portasse la metafora alle estreme conseguenze arriverebbe a concludere che il governo non solo non deve aggiustare le regole nel corso della partita per favorire i ‟campioni nazionali”, peccato contro la concorrenza che verrebbe peraltro sanzionato dalla Commissione europea, ma deve anche ritrovare coerenza: lo Stato, infatti, non può dettare le regole, controllarne l'osservanza e partecipare alla gara in competizione con i regolati senza incorrere in seri conflitti d'interesse. Nell'economia in stile Wimbledon, insomma, non ci dovrebbe essere posto per lo Stato imprenditore. Nel suo editoriale, tuttavia, Padoa-Schioppa fino a questo punto non era arrivato. E ora si capisce perché. Intervenendo giovedì 20 luglio al Senato da ministro dell'Economia, Padoa-Schioppa ha annunciato che la mano pubblica non molla la presa su Eni, Enel, Finmeccanica e Cassa depositi e prestiti. Potrebbe aprire il capitale di Poste Italiane e Ferrovie ai privati, ma si tratterebbe di quote di minoranza simili,va detto, a quelle che mettevano in Borsa le banche e le finanziarie dell'Iri per le telecomunicazioni, le autostrade, l'agroalimentare o la siderurgia. È interessante la ragione che il ministro ha addotto per non vendere altre azioni Eni ed Enel: ‟Siamo arrivati al limite sotto il quale queste aziende sarebbero sottoposte a offerta pubblica d'acquisto”. Questo vuol dire che in certi casi, a suo giudizio, la stabilità degli assetti azionari è un bene da tutelare, e che nessuno meglio dello Stato lo può fare. Il punto, in verità, era chiaro da anni. Ma ci voleva un Padoa-Schioppa, con la sua solida reputazione liberale, per far emergere quanto sia lontano dalla realtà chi teorizza le privatizzazioni sempre fino all'ultima azione. Dall'assunzione di responsabilità del ministro derivano, a mio parere, quattro conseguenze: a) il governo e gli enti locali potranno decidere se vendere o meno in base all'analisi concreta delle convenienze specifiche, e allora, per fare un esempio, il socialismo municipale potrà non essere smantellato tout court in quanto coacervo di piccole Iri, ma rivisto con scienza e coscienza; b) non risolvendolo in radice, il governo dovrà gestire in trasparenza il conflitto tra Stato regolatore e Stato azionista, e se darà il primato alla regolazione il modello Wimbledon sarà sostanzialmente salvo; c) da buon azionista, il governo non dovrà impedire lo sviluppo delle aziende, cosa che talvolta ha fatto, anche perché la sua partecipazione al 30% offre uno scudo destinato a indebolirsi mano a mano che cresce l'integrazione europea, ed Eni ed Enel saranno sempre più esposte al rischio di scalate ostili e beffarde perché potrebbero essere finanziate con debiti ripagabili dalle stesse prede; d) il ministero dell'Economia dovrà infine decidere se monetizzare comunque le partecipazioni senza perderne il controllo, attraverso la Cassa depositi e prestiti o sue più sofisticate filiazioni utilizzando la leva finanziaria a favore del bilancio pubblico.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …