Umberto Galimberti: Se la tecnica uccide la natura
28 Agosto 2006
Disponiamo di un’etica in grado di pensare alla natura minacciata dalla tecnica e quindi alle generazioni future che si troveranno a vivere a partire da ciò che gli avremo lasciato? Temo di no. Perché il rapporto uomo-natura è stato regolato per noi occidentali da due visioni del mondo: quella greca e quella giudaico-cristiana che, per quanto differenti tra loro, convenivano nell’escludere che la natura rientrasse nella sfera di pertinenza dell’etica, il cui ambito era limitato alla regolazione dei rapporti tra gli uomini senza alcuna estensione agli enti di natura. I greci, infatti, concepivano la natura come quell’ordine immutabile, quell’orizzonte non oltrepassabile, quel limite insuperabile che nessuna azione umana poteva violare. Lo stesso Prometeo, l’inventore delle tecniche, non esita a riconoscere che «la tecnica è di gran lunga più debole della necessità che governa le leggi di natura». Quando la cultura greca incrocia la cultura giudaico-cristiana lo scenario muta perché la religione biblica, concependo la natura come creatura di Dio, la pensa come effetto di una volontà: la volontà di Dio che l’ha creata e la volontà dell’uomo a cui la natura è stata data in consegna per il suo dominio. Da quel momento il significato della natura non è più "cosmologico" ma "antropologico". Essa, cioè, viene subordinata alle intenzioni della progettualità umana che, come vuole il programma della scienza moderna enunciato da Bacone (scientia est potentia), conosce per dominare. Il problema che oggi si pone è la "misura" di questo dominio, che già Sofocle paventava quando nell’Antigone scriveva: «La natura ha forze tremende, eppure, più dell’uomo, nulla è tremendo». Il rapporto tra uomo e natura non è mai stato idilliaco come tanta letteratura romantica vuol farci credere. Anzi proprio per difendersi dalle forze della natura, l’uomo ha costruito la città, la cui funzione era di delimitare non di espandersi, di costruire una zona protetta per la comunità umana, regolata da leggi che ne garantissero la pacifica convivenza e con essa la sopravvivenza. La città, cinta da mura e separata dalla natura, costituiva l’unico e intero ambito della responsabilità umana, da cui era esclusa la natura in grado di provvedere a se stessa e se, opportunamente sollecitata, anche all’uomo. La morale nasce dunque all’interno della città con una visione assolutamente antropocentrica e circoscritta alla comunità umana. Non solo, ma la morale nata nella città a salvaguardia della comunità ivi raccolta aveva due altre caratteristiche che la rendevano idonea per quel tempo, ma assolutamente inidonea per il nostro tempo. La prima caratteristica era la "prossimità" di tale etica le cui norme si riferivano ad azioni umane di portata circoscritta, dal momento che riguardavano i rapporti diretti dell’uomo col suo prossimo, col suo vicino, percepito come amico o nemico, come superiore o subordinato, come più forte o più debole, e in tutti gli altri ruoli in cui gli uomini hanno a che fare reciprocamente. Al di fuori del cerchio ristretto della convivenza non si avvertiva alcuna altra responsabilità morale. La seconda caratteristica dell’etica, nata in quell’enclave della natura che erano le città, era la limitazione delle norme morali al puro "presente", a coloro che vivono ora e che avanzano pretese sul reciproco comportamento, in quanto ciascuno avverte di essere condizionato nella sua vita dalle azioni e dalle omissioni degli altri. Nessuno sguardo sul futuro, perché il tempo era lento e soprattutto ripeteva ritmicamente il suo ciclo. Questa etica, che dalle prime comunità umane a oggi è rimasta nei suoi principi fondamentalmente immutata, nell’età della tecnica rivela tutti i suoi limiti, ravvisabili proprio nelle sue caratteristiche che sono: il "primato antropologico", che percepisce la natura come un semplice mezzo al servizio dell’uomo concepito come fine a cui sono subordinate tutte le cose, e la "limitazione spazio-temporale" per cui quel che accade fuori dalle mura della città, o il futuro che oltrepassa la biografia dei suoi abitanti non sono avvertiti come qualcosa che investe o implica responsabilità etica. Per effetto di questi limiti, oggi non disponiamo di un’etica che sia all’altezza dell’età della tecnica, la cui potenza ed espansione compromette la natura che non può più essere pensata, come ritenevano gli antichi, immutabile e immodificabile. La città degli uomini, infatti, che un tempo era uno spazio recintato nel mondo naturale, oggi ha preso il posto della natura, ridotta a spazio recintato nel mondo artificiale della città. Per effetto di questo capovolgimento oggi la natura può vivere solo grazie all’assistenza tecnica, la stessa che un giorno l’ha compromessa, modificando le condizioni d’esistenza del mondo umano e animale nel loro ricambio organico con la natura. Se guardiamo la monotonia di distese di cereali solcate da mietitrici solitarie e irrorate da antiparassitari erogati in volo, abbiamo un esempio elementare ma indicativo di come la tecnica, anche quando soccorre la natura, anche quando la "ipernaturalizza", in realtà la "denaturalizza", perché crea un paesaggio così poco ospitale e così poco comunicativo che persino una grande fabbrica offre un volto più umano. Se poi dal mondo vegetale passiamo a quello animale, l’estrema degradazione di esseri viventi trasformati in macchine da uova e da carne, sottratti al loro ambiente, sottoposti a illuminazione artificiale, alimentati automaticamente, deprivati sensorialmente, è la prova più evidente di come l’assistenza tecnica alla natura denaturi la natura e segni l’abissale distanza che ormai separa la tecnica dal suo antico radicamento naturale. Ma ormai anche la natura, per effetto dell’incremento demografico esponenziale, ha forse superato il suo limite biologico e, senza l’intervento della tecnica, non è in grado di provvedere alle sue stesse creature. La tecnica, a sua volta, si presenta come un soggetto ancora abbastanza sconosciuto, astorico, in se stesso non sufficientemente manifesto, e già mediatore di processi naturali, quando non catastrofici che, a differenza di quelli naturali, avvengono per l’incrocio casuale di movimenti retti da leggi che presiedono la loro regolarità ed efficienza fino all’imprevisto punto della loro intersezione. A questo punto l’etica di cui disponiamo, che assume l’uomo come fine di tutte le cose e che circoscrive la sua competenza alla regolazione dei rapporti tra gli uomini nel limite temporale delle loro biografie senza sporgere lo sguardo sulle generazioni future, è un’etica assolutamente inadeguata all’età della tecnica. Il principio della morale kantiana: «Occorre trattare l’uomo sempre come un fine e mai come un mezzo», a parte che non si è mai realizzato, lascia in ogni caso intendere che, fatta eccezione per l’uomo, tutti gli enti di natura possono essere trattati come «mezzi». Ma oggi l’aria contaminata da agenti nocivi, l’acqua corrotta da elementi inquinanti, la vegetazione minacciata dalla desertificazione, la fauna in molte sue specie in estinzione, sono solo "mezzi" al servizio dell’uomo o devono a loro volta essere elevati a "fini" da salvaguardare e quindi da affidare alla cura e alla responsabilità morale dell’uomo? Come si vede l’etica di cui disponiamo, che, in conformità al messaggio biblico, ha subordinato tutti gli enti di natura all’uomo, non è un’etica adeguata alla salvaguardia della natura e quindi neanche dell’uomo, che ha nell’ambiente naturale la condizione imprescindibile della sua esistenza. Oggi, infatti, il pericolo non viene più, come un tempo, dalla natura, ma dal potere conseguito dall’uomo per dominarla in quella forma che, oltrepassando ogni misura, non si limita all’uso della terra, ma si spinge fino alla sua usura. Guardandola con gli occhi della tecnica, l’uomo visualizza la natura come semplice "materia prima", e persino se stesso come "materiale della tecnica", come i progressi della biologia e della genetica lasciano intendere, confermando l’intuizione di Heidegger che già nel 1951 scriveva che ormai «l’uomo non può più nascondersi il fatto di essere diventato la più importante delle materie prime». Per effetto del suo sviluppo incessante che non conosce confini o frontiere, per la cogenza dei suo imperativi che prevedono che si debba fare tutto ciò che si può fare, per la ricaduta globale delle sue conseguenze nello spazio e nel tempo, sempre al limite tra il progresso e la catastrofe, la tecnica non può più essere regolata dall’etica tradizionale, perché questa, essendo un’"etica della prossimità", dispone di norme che non oltrepassano le azioni umane circoscritte nello spazio e nel tempo, e soprattutto che non si fanno carico del futuro. Ma perché un’etica possa farsi carico del futuro sarebbe necessario che gli effetti della tecnica fossero prevedibili, perché se così non fosse, e di fatto non lo è (basti pensare agli effetti del riscaldamento del pianeta sulla biosfera, agli effetti degli organismi geneticamente modificati, agli effetti dell’impiego dell’energia nucleare) lo scenario che si dischiude non è più il potere dell’uomo sulla natura, ma il potere della tecnica sull’uomo e sulla natura. Oggi che il nostro "potere di fare" è enormemente superiore alla nostra "capacità di prevedere" gli effetti delle nostre ideazioni tecniche, per avvicinarci a un’etica che sia all’altezza della tecnica occorre recuperare quella virtù che i greci avevano attribuito a Prometeo, l’inventore delle tecniche, il cui nome significa letteralmente "colui che vede in anticipo". E’questa la capacità venuta meno all’uomo d’oggi, che non è più in grado di anticipare e forse nemmeno di immaginare gli effetti ultimi del suo fare. In questa inadeguatezza è il suo massimo rischio, così come nell’ampliamento della sua capacità di comprensione e di consapevolezza anche emotiva dello "smisurato" che lo attornia la sua flebile e unica speranza.
Umberto Galimberti
Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …