Paolo Rumiz: Il legno che canta nella foresta degli alberi-violino

10 Aprile 2006
C’è un uomo col violoncello in un bosco d’abeti ancora coperto di neve. Lo strumento ha cinque secoli, è fatto col legno di quella foresta. L’uomo lo appoggia a un tronco, ficca diagonalmente il puntale nella corteccia. Lo accorda, attacca una suite per violoncello solo di Bach. Spara note basse nel legno, lo esplora con pazienza, lo sonda, finché succede. L’albero - un gigante di trenta metri - reagisce. Si sveglia, risuona nelle fibre, diventa un prolungamento del liuto. Di più. Mezza foresta suona, ripete quelle vibrazioni come se le sapesse a memoria. Riconosce la voce dell’antenato. Il primo sole esce dalle Pale di San Martino, la foresta suona. è la stessa dove Stradivari prese il legno dei suoi violini. Il bosco di Paneveggio, tra Passo Rolle e la Val di Fiemme, provincia di Trento. Il cuore incantato dei Monti Pallidi. Non c’è nessun altro rumore. Tace il picchio, il tordo, la nocciolaia, persino il torrente. Il violoncello è diventato albero, s’è impossessato della foresta. Non è autosuggestione: accanto c’è un liutaio che ascolta, stupefatto, con l’orecchio sul tronco. Nemmeno lui ha mai sentito nulla di simile. Il suono si trasfigura, muta in leggerezza, profondità, morbidezza, timbro, colore. Da sempre gli alberi si ascoltano da morti. I liutai scelgono i legni giusti già affettati sulle mensole della stagionatura. Li battono, li soppesano, ne misurano la risonanza con strumenti speciali. Nessuno aveva mai provato a far suonare alberi vivi. Ora è questo che accade. Il violoncellista arranca nella neve alta al ginocchio, con lo strumento affardellato in una custodia color argento. Si sposta di tronco in tronco, ausculta gli alberi, usa lo strumento come uno stetoscopio. Non si dà pace, cerca l’esemplare perfetto. Persino l’ensemble di abeti fratelli capaci di far coro attorno all’esemplare risonante, come le canne di un organo. Succede con la luna calante d’aprile, sotto il Cimon della Pala. Lo strumento è suonato da un grande del violoncello mondiale, il veneto Mario Brunello, uno che da piccolo voleva fare il guardiaboschi. Il liutaio è Filippo Fasser, un bravo artigiano di Brescia. Con loro, tre forestali trentini, Ettore Sartor, Giuliano Zugliani e Paolo Kovatsch. Cinque uomini in tutto, ma potevano essere di più. Per quest’evento ci voleva anche gente come Mauro Corona, il poeta-montanaro che parla con gli alberi. O Mario Mallardi, costruttore di barche secondo le regole antiche ed accettate; e figlio, guarda caso, di un violoncellista. Boscaioli, maestri d’ascia e d’archetto, liutai, poco cambia. Il legno canta sempre. L’idea scatta per caso, una sera di polenta e vino, in una baita in fondo alla Val Canali. Già il nome è propiziatorio: ‟Cant del gal”, il luogo segreto del gallo forcello. Intorno, l’ultima neve, abeti secolari, un anfiteatro di crode nere contro le stelle. Il mondo di Dino Buzzati. Mario è lì con lo strumento, non lo molla mai, nemmeno in montagna; e quello lo segue ovunque, gli dorme accanto, viaggia con lui in aereo, occupa regolare poltrona e paga regolare biglietto. Non è solo per il valore. è che il violoncello è unico. Per suonarlo lo abbracci, ne senti le vibrazioni con la pancia e i polmoni. Diventa compagna di strada, impari a riconoscerne la vita e i fianchi. L’albero ha la storia scritta nelle venature. Specie l’abete rosso, il legno di risonanza dei liutai, quello con la più veloce diffusione del suono. Svela sempre la sua origine, l’età, i climi che ha vissuto, luogo per luogo. Il nostro strumento, rivela Brunello, viene dalle foreste oltre il Passo Rolle, il bosco con gli abeti più belli delle Alpi. L’albero venne tagliato nel 1560, anno più anno meno. Un’anticaglia? Nossignore. Il legno dei pianoforti cede dopo mezzo secolo. Invece quello dei liuti - viole, violini e violoncelli - ha il diavolo in corpo. Invecchiando migliora. La legna del bosco arde nel focolare, parla anch’essa, sfiata, entra nel mistero della creazione, allunga sul racconto l’ombra di trapassati. Brunello: ‟Quando prendo in mano uno strumento che è stato di qualcuno, ricevo qualcosa da chi mi ha preceduto. Sento se è stato usato bene. Se poi imito il mio predecessore, m’accorgo che è felice. Si rilassa, non si ribella, emette vibrati da pelle d’oca. Viceversa, ci sono ottimi strumenti incattiviti dal pessimo uso. Emettono un suono acido, duro”. Il liutaio non ha dubbi: ‟Lo strumento impara da chi lo suona”. Usciamo sotto le stelle. Il maestro guarda per aria: ‟Ecco, la voce del mio strumento viaggia lassù. Nel '76 fu spedito nell’infinito con un satellite della Nasa, inciso su un disco d’oro. Allora apparteneva a Franco Rossi, del mitico Quartetto Italiano”. Sorride: ‟Vorrei tanto che un giorno il mio violoncello passasse nelle mani giuste. Non quelle di chi ha i soldi per comprarselo, ma in mano di chi se lo merita suonando bene”. Poi apre la custodia, si siede su un ceppo, parte con la Ninna nanna di Brahms. Nel silenzio, l’anfiteatro ascolta. Intorno a noi abeti rossi, e ci chiediamo se anche loro sentano quel suono, lo riconoscano. Decidiamo di provare l’indomani, nel bosco dei violini. Quella notte nessuno dorme. Il suono è sospeso nel silenzio, è come se la foresta lo mormorasse ancora. La ‟meravigliosa historia” del liuto ci è entrata dentro. Liuto: dall’arabo ‟al Ud”, guscio, cavità risonante. Strumento arrivato in Andalusia ben prima del Mille. Unico a raggiungere la perfezione assoluta già nel Settecento. Da allora il pianoforte è tutto cambiato; viola, violino e violoncello no. Evoluzione finita. E poi, il segreto di quest’arte tutta padana, l’arte dei liutai, concentrata tra Venezia, Brescia e Cremona, in una nebbiosa cassa acustica dove confluirono tecniche delle tre grandi scuole. Spagna, Inghilterra e mondo arabo. Sveglia alle cinque, ancora notte fonda. Risaliamo i tornanti del Rolle, il vecchio albergo Frattazza dove Schnitzler scrisse La signorina Else. Neve ai lati della strada, la temperatura scende, a Occidente le cime storte delle Pale di San Martino. Nel buio, tuona il torrente Cismòn. Sul passo tutto si apre, la neve è ancora alta, una luce color mercurio illumina, sull’altro versante, la conca di Paneveggio, ne svela da lontano la perfezione acustica. Nella sede dei forestali ci aspettano le guide per farci entrare nel bosco dei violini. Quello dove abita l’abete di risonanza. Risaliamo il torrente Travignolo, dove per un millennio si lasciarono fluitare i tronchi verso l’Adige e l’arsenale di Venezia, per la costruzione delle galere e poi dei velieri. Chissà, spiegano i guardiaboschi, che quella lunga immersione nell’acqua non purgasse il legno da resine e impurità in modo da migliorarne la stagionatura. Si parla del momento giusto per l’abbattimento, l’inizio della luna calante che precede il solstizio d’inverno. Giorni scuri, con l’attività vegetativa al minimo, poca resina e parassiti zero. Ma ecco il bosco, nella conca sotto il Cimon della Pala: la Val Venegia, incontaminata, defilata, tra il Rolle e il Passo Valles. Terreno fertile, vulcanico. Altezza ideale, tra i 1500 e i 2000. Posizione protetta dai venti. Un clima freddo quel che basta, ma con un’umidità dimezzata rispetto al Tarvisiano, terra di magnifiche abetaie, ma con tronchi pesanti come piombo. Ecco, c’è un albero appena abbattuto. Un esemplare di un secolo e mezzo, quasi un metro di diametro. Il tronco è tagliato in tre, le parti sembrano i vagoni di un treno deragliato. Attorno alla ferita aperta, una collana di perline d’oro vivo. Resina. Brunello apre la custodia, ficca il puntale dello strumento nel punto più nobile dell’albero, quello senza rami e noduli, tre metri sopra la radice. Suona Bach, è pallidissimo. Forse è il freddo, forse è la commozione. ‟Impressionante - dice alla fine - lo strumento mi si è allungato davanti”. Ricomincia a suonare, la risonanza c’è, la sentono anche i guardiaboschi. Ma non gli basta. Cerca dell’altro. ‟Non voglio scegliere cadaveri. Voglio sentire una pianta viva. Catturare il suo liquido amniotico. Usare il violoncello come un cordone ombelicale. Un qualche segnale riuscirò pure a sentirlo”. La foresta ondeggia, vista dal basso è una flotta di velieri, un immenso organo pronto a riempire di note una cattedrale. Brunello richiude la sua custodia-zaino, ora cerca nel profondo del bosco, affonda nella neve-pappa, coperta di aghi e cacche di cervo. Saliamo in reverente silenzio. Ora davanti a lui c’è un esemplare magnifico, il puntale s’incastra di nuovo nella corteccia, in bilico tra cielo e terra. In alto la luce, la clorofilla. In basso la linfa che sale dalle rocce e dall’humus dei millenni. Ancora Bach. L’archetto tormenta le corde, toglie bassi pazzeschi dalla cassa armonica, esplora il legno. Le note svegliano l’albero quasi immediatamente. L’artista non ci può credere. ‟Cambia tutto! C’è una conduzione incredibile! Ho suonato tanto all’aperto, ma il suono si disperdeva. Qui no, è come essere in una sala concerto, su un palcoscenico di legno buono”. Cerca un altro punto. ‟Senti? Senti come qui è diverso? Più secco?”. Ora protende il violoncello verso l’alto, lo ficca nella corteccia dal basso, fa una suonata verticale. ‟Ecco, qui, qui è perfetto!”. Il liutaio ascolta le vibrazioni del legno vivo, con la mano tra orecchio e corteccia. Sorride. Ora Brunello s’appoggia a due gemelli siamesi, vi s’incastra con la schiena e pianta lo strumento nella radice. Azzarda Vivaldi, poi una Polonaise di non so chi. Ora la risonanza è impressionante, la può sentire con la cassa toracica. Ma è il bosco intero che risponde. ‟Senti, senti che ricchezza di suoni. Ci vorrebbe uno strumento per misurare tutto questo”. Chissà se nel mondo c’è l’Archimede Pitagorico in grado di inventarlo. In quell’attimo un picchio spara la sua raffica di colpi nel tronco di un abete. Brunello si illumina, ha un lampo ironico negli occhi: ‟Il picchio! Figurati se loro non sentono come suona un abete. Bisognerebbe ammaestrarlo!”. Ride, e il suo è uno scherzo ma non troppo. Un gioioso andante con brio.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …