Paolo Rumiz: Tre sbuffi lievi, musica da locomotiva
20 Settembre 2006
Montai per la prima volta sulla locomotiva in un’alba di temporale a Firenze-deposito. Era la mitica, italianissima ‟640”, vorace, garretti alti, che aspettava in fondo a un binario. Vi scesi dopo 200 chilometri, completamente trasformato. C’era anche Marco Paolini, figlio di Muso Nero (macchinista di vaporiera): avevo la fuliggine anche nell’ombelico, ma ero entrato in un mondo di ferro, fuoco e carbone che non potevo capire restando nei vagoni. Il viaggio con la vaporiera è viaggio nella locomotiva.
Lei ansimava già nella notte della vigilia, ferma in deposito, i macchinisti la mandavano piano in calore, la portavano all’orgasmo con lentezza. Poi si agganciarono i vagoni e si andò, tra lampi e tuoni, spalando montagne di carbone, in una concitazione da regata d’altura, bucando un’aureola iridescente di pioggia e fuliggine. Tre sbuffi lievi e uno forte, il ritmo quaternario del vapore cresceva, quello binario sdoppiato delle rotaie anche, si toccarono i cento orari, si stappò un Chianti, arrivammo frullati e sporchi come lagunari.
Due anni dopo, fu la ‟740”, l’ammiraglia, il capolavoro italiano, possente sputafuoco rimessa in pista per un giorno sulla linea tra Bari e Altamura. Il macchinista si segnò tre volte, alla bizantina, poi filò sul Tavoliere dietro a un pennacchio di fumo sulfureo. La bestia passò come una macchina vendicatrice per campi di pomodoro, uliveti, vecchie fabbriche come balene arenate, sfiorò donne mediterranee che stendevano panni e preparavano ragù, e poi corbezzoli, ginestre, cicale, orti, condomini. Un frullato del Paese.
Era una macchina onirica, e anche un tantino erotica. La nuca mi si riempì di termiti, il formicolìo mi fece addormentare in piedi aggrappato a un corrimano, sognai per un lungo istante un vagone pieno di pendolari scosso come una tarantola, con dentro tutti che cadevano: suore, nigeriani, stupende donne russe, carcerati sotto scorta, bigliettai. Poi ci fermammo tra i grilli, il bruco nero con i lumini rossi sulla coda stantuffò ancora un poco e si assopì, come un nero Mefistofele.
Lei ansimava già nella notte della vigilia, ferma in deposito, i macchinisti la mandavano piano in calore, la portavano all’orgasmo con lentezza. Poi si agganciarono i vagoni e si andò, tra lampi e tuoni, spalando montagne di carbone, in una concitazione da regata d’altura, bucando un’aureola iridescente di pioggia e fuliggine. Tre sbuffi lievi e uno forte, il ritmo quaternario del vapore cresceva, quello binario sdoppiato delle rotaie anche, si toccarono i cento orari, si stappò un Chianti, arrivammo frullati e sporchi come lagunari.
Due anni dopo, fu la ‟740”, l’ammiraglia, il capolavoro italiano, possente sputafuoco rimessa in pista per un giorno sulla linea tra Bari e Altamura. Il macchinista si segnò tre volte, alla bizantina, poi filò sul Tavoliere dietro a un pennacchio di fumo sulfureo. La bestia passò come una macchina vendicatrice per campi di pomodoro, uliveti, vecchie fabbriche come balene arenate, sfiorò donne mediterranee che stendevano panni e preparavano ragù, e poi corbezzoli, ginestre, cicale, orti, condomini. Un frullato del Paese.
Era una macchina onirica, e anche un tantino erotica. La nuca mi si riempì di termiti, il formicolìo mi fece addormentare in piedi aggrappato a un corrimano, sognai per un lungo istante un vagone pieno di pendolari scosso come una tarantola, con dentro tutti che cadevano: suore, nigeriani, stupende donne russe, carcerati sotto scorta, bigliettai. Poi ci fermammo tra i grilli, il bruco nero con i lumini rossi sulla coda stantuffò ancora un poco e si assopì, come un nero Mefistofele.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …