Gian Antonio Stella: Il governo “taglia” i bocciati. “Così risparmiamo sui professori”

06 Ottobre 2006
Bastava dirgli la formula magica, ‟Briclebrit!”, raccontano i fratelli Grimm nella loro celebre favola, e l’Asino d’oro ‟buttava monete d’oro, di dietro e davanti”. Mica male, si devono esser detti i cervelloni della legge finanziaria. E per tirar su un pò di soldi hanno deciso di puntare anche sui somari. Scolastici. Evviva: dalla finanza creativa a quella fiabesca. Spiega infatti la pagina 352 del monumentale documentone pubblicato dalla Camera dei Deputati, che uno degli obiettivi del governo, dopo l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, è quello di attivare ‟idonei interventi finalizzati al contrasto degli insuccessi scolastici” con ‟attività di accoglienza, rimotivazione e riorientamento, nonché l’individualizzazione della didattica in modo da tener conto delle diverse forme di intelligenza e dei diversi stili di apprendimento”. Parole criptiche in burocratese stretto ma il senso, con qualche fatica, si capisce: visto che si alza l’età dell’obbligo portandola a 16 anni, la scuola deve fare tutti gli sforzi possibili per tirar fuori il meglio dagli alunni. Anche da quelli più zucconi. Quelli descritti da Collodi come ‟ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole”, che ‟diventano tanti ciuchini”. Ottimo proposito, se fosse dettato solo dalla premura per i giovani cittadini ciuchi. Ma c’è un risvolto, diciamo così, un pò meno disinteressato. Aggiunge infatti il disegno di legge che ‟la conseguente riduzione della permanenza media degli alunni all’interno del sistema determinerà una riduzione della spesa per oneri del personale”. Insomma, spiega Italia Oggi cui va il merito di avere scovato la chicca nella massa cartacea, ‟meno ripetenti significa meno classi, meno professori, meno bidelli”. ‟Meno” quanto? Il documento si avventura sulle cifre: ‟Al fine della stima del risparmio, è stata considerata una riduzione del 10% del numero dei ripetenti dei primi due anni di corso della scuola secondaria di secondo grado, ammontanti oggi complessivamente a 185.002 studenti. Sì ricava così una diminuzione di 18.500 unità per la popolazione studentesca che, considerando l’attuale rapporto alunni/classi, corrisponde a 805 classi; supponendo quindi di poter diminuire il numero complessivo di classi in ragione dell’80% del possibile risparmio, si stimano 644 classi in meno”, con una riduzione di 1.455 docenti e 425 segretari, bidelli, custodi e così via ‟per una minore spesa di euro 56 milioni a decorrere dall’anno 2008, ed euro 18,6 milioni per l’anno 2007”. Oddio, non è che sulla scuola sia facile indovinarla. Basti ricordare il caso clamoroso di Franca Falcucci. Ve la ricordate? Faceva il ministro della Pubblica istruzione e nel 1982 propose alle Camere di inquadrare nel ruolo i precari della scuola. Le chiesero: quanto costerebbe? Rispose: 31 miliardi e 200 milioni. Due anni dopo, nel 1984, l’allora ministro del Tesoro Giovanni Goria doveva ammettere che c’era stato un errore: la norma approvata costava a regime 1.580 miliardi l’anno, pari a oltre due miliardi di euro di oggi: 53 volte più del preventivato. Da cosa gli ideatori nel nuovo estroso dribbling finanziario abbiano tratto stavolta la previsione su questa riduzione dei bocciati non è chiaro. Esclusa l’ipotesi del pendolo e dei fondi del caffè, anche il segretario della Cgil scuola Enrico Panini, che certo non passa per uomo ostile al governo unionista, dice che ‟forse si rifanno a uno studio del 2001 sugli effetti della riforma di Luigi Berlinguer che aveva portato l’obbligo a 15 anni e aveva avuto tra le conseguenze una certa riduzione del numero dei respinti”. Forse. Ammette però, ridendo, che ‟può darsi che abbiamo fatto una botta di conti”. E assicura: ‟Nessun insegnante, in ogni caso, può accettare l’idea di avere la manica larga perché così fa bene alle casse dello Stato”. Anche perché, diciamolo, la scuola italiana è già di manica larga. Sempre di più. Prendiamo la licenza liceale. Spiega l’Annuario Statistico che nel regio anno scolastico 1888-1889 gli studenti del terzo anno di liceo classico furono ‟licenziati”, cioè promossi, nell’86% dei casi. Ma si trattava di una élite. Ai primi esami di maturità dopo la riforma di Giovanni Gentile, nel 1924-25, con una platea di candidati decisamente più affollata, solo il 25% fu promosso. E un quarto di secolo dopo, agli esami di maturità del 1951/52, i bocciati furono il 28,4%. Da allora la percentuale non ha fatto che calare. Merito di generazioni studentesche più sveglie e più studiose? Mah... Fatto sta che già nel 1970-71, i respinti erano precipitati al 9,4%. E hanno continuato a scendere, scendere, scendere. Fino ai record di quest’anno, quando secondo l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione (Invalsi), i ragazzi bocciati sul filo dell’ultimo esame sono stati tre ogni cento. Certo, nei primissimi anni delle medie superiori, i numeri sono diversi. Sostiene il rapporto ministeriale ‟La scuola in cifre” che gli studenti costretti a ripetere l’anno (straordinario l’eufemismo politically correct del dossier che parla sempre di ‟non promossi”) sono stati nel 2003/04 il 16,8% al primo anno, il 13,1 al secondo, il 12,5 al terzo. Concentrati in larga parte negli istituti tecnici e professionali. Dove la quota di bocciati è rispettivamente doppia (15,3%) o quasi tripla (19,3%) rispetto ai licei (7,3%). Ma è comunque dimezzata rispetto a venti anni fa. Quando forse i professori erano un pò meno bonari. E a nessuno veniva in mente di dire ‟Briclebrit!” sperando che gli asini buttassero monete d’oro...

Gian Antonio Stella

Gian Antonio Stella è inviato ed editorialista del “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri Schei, L’Orda, Negri, froci, giudei & co. e i romanzi Il Maestro magro, La bambina, …