Renato Barilli: L’artista che scoprì la borsa dell’acqua calda

06 Novembre 2006
Il Castello di Rivoli conferma il suo ruolo di punta, nel panorama nostrano dei luoghi dedicati all’arte contemporanea, ospitando, forse per la prima volta in Italia, una mostra assai consistente di uno dei protagonisti più favolosi del secondo Novecento, Claes Oldenburg, nato nel 1929 in Svezia, e dunque uno degli ultimi a illustrare il fenomeno dell’emigrazione dal Vecchio al Nuovo Continente. Infatti, a cavallo degli anni ‘50 e primi ‘60, lo troviamo tra gli splendidi campioni che, sulla scena di New York, danno luogo al movimento trascinante e di assoluto dominio Usa qual è stata la Pop Art. Solo Roy Lichtenstein e Andy Warhol reggono al confronto, accanto allo svedese-statunitense, che tuttavia forse segna un punto di eccellenza suprema dato che, con lui, l’epica dell'oggetto banale e quotidiano, tipica del clima Pop, assume una pienezza tridimensionale di forme, nonché un effetto di ingrandimento a scala monumentale. Questa, allora, l’idea geniale di Oldenburg: erigere nelle piazze e per le vie dei centri urbani non già statue di condottieri, o grovigli di forme astratte, bensì monumenti dedicati agli umili, precari, inanimati accompagnatori plastici della nostra vita di ogni giorno, il cono gelato, lo stick del rossetto, la borsa dell’acqua calda. Con in più una variante tra due modalità nel trattare questi complessi plastici: o il rifacimento ‟tale e quale”, nella rigidità dei materiali costitutivi, o una sorta di svuotamento, così da farli pendere flosci, sgonfi, il che ci porta a un’alternanza tra il rigido e il molle, tra lo hard e il soft.
Tutto questo nel corso degli anni ‘60 e di buona parte dei ‘70. Ma poi in Oldenburg interviene una mutazione di rilievo, forse dovuta all’incontro con una curatrice museale olandese, Coosje Van Bruggen, che presto diviene la sua seconda moglie e da quel momento firma assieme a lui ogni opera; e in effetti la rassegna a Rivoli è dedicata a entrambi (a cura di Ida Gianelli e Marcella Beccaria, fino al 25 febbraio, cat. Skira), con un sottotitolo, Scultura per caso, che però sembra adattarsi ben di più al primo tempo oldenburghiano, come appena riassunto nelle righe di cui sopra. Infatti tra i ‘70 e gli ‘80 la coppia attesta di una svolta, riesce difficile dire se ascrivibile all’arrivo della compagna olandese, o se invece dovuta alla forza dei tempi. Certo è che verso gli ‘80 si allontana il clima di bassi consumi, incentrati su oggetti di stretta utilità, che era stato la gloria e il vanto della Pop Art. Le nuove ondate di consumatori vogliono salire i gradini del gusto, abbandonare gli oggetti di primo livello per concedersi gadgets più preziosi e ‟accessoriati”, un po’ come succede nelle auto, in cui crescono a dismisura le scelte optional. Il clima artistico di quegli anni conosce bene queste complicazioni del gusto, dando vita al capitolo detto del citazionismo, della mode rétro, e autorizzando incursioni nel museo, nelle riserve del bello, anche se una bellezza resa accessibile alle masse di utenti si configura subito nei termini del kitsch.
E così, nel repertorio della coppia escono di scena i tostapani, i lavabo, le macchine da scrivere, ed entrano invece gli strumenti musicali, violini, trombe, tromboni, fanno capolino perfino certi materiali architettonici quasi desunti da un manuale: architravi, capitelli, in accordo con la svolta postmoderna che proprio in quegli anni caratterizza l’architettura occidentale. Naturalmente la coppia non rinuncia certo all’arma di elezione, che sta nel riproporre quei motivi su scala gigante, ma succede che l’ingrandimento appare compiersi in modi troppo lustri, politi, luccicanti. Il guaio è, per loro, che sulla scena è ormai comparso, sempre a New York, chi, per giovinezza anagrafica, sa rendersi meglio interprete di quella crescita di gusto, anzi, di cattivo gusto, nei bisogni, anzi nei post-bisogni delle masse, Jeff Koons. Lui sa andare fino in fondo nell’evidenziare le ‟buone cose di cattivo gusto”, nel sapere come si devono trattare, nell’affidarle al legno scolpito o alla ceramica o alle lamiere cromate. La coppia Oldenburg-Van Bruggen, invece, è trattenuta e impedita, su quella strada, dai rimanenti vincoli con la stagione Pop o ‟volgare” o democratica, ne viene quindi un compromesso talvolta stonato, dove appunto un fare troppo liscio e levigato stride con un intento ‟democratico” di base. Basti pensare al documento di una simile situazione stilistica che è stato innalzato a casa nostra, in Piazza Cadorna a Milano, monumento alla assoluta futilità di una gugliata di filo policromo con relativo ago, di cui bisogna ammirare l’estremo coraggio nell’elevare a un massimo riconoscimento un’occasione minimale e futile, il che però stride con lo splendore della lucidatura, col brillio dei colori. Il ninnolo, per quanto ingigantito, non si riscatta del tutto dalla sua leziosità. Altra cosa erano le cicche, i cibi avanzati in piatti dozzinali, che Oldenburg esibiva ai tempi della vena autenticamente ‟vulgarian”, avvalendosi di materiali rozzi, ma frementi di vita. Vero è che quando la coppia (o il solo Oldenburg) si ferma a delineare all’acquerello dei bozzetti di queste avventure plastiche, il foglio è delizioso, sapientemente sfumato, senza brillii eccessivi. Ma il passaggio all’ingrandimento tradisce l’intento ‟vulgarian”, lo immobilizza in un eccesso di tornitura e perfezione.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …