Marina Forti: Afghanistan. Taleban che va, paura che resta

16 Novembre 2006
A prima vista, la vita della capitale afghana è normale. Il traffico disordinato di una città di 4 milioni e mezzo di abitanti, le vie affollate, signore con il burqa che piace tanto ai fotografi ma più spesso con un foulard. Se non fosse per quei carri armati con scritto Isaf e la bandierina italiana che corrono in convogli di tre facendosi largo nel traffico, e quelli che da un paio di giorni sostano davanti all'hotel Serena, il più chic della città (250 dollari a notte, cinque volte lo stipendio di un medico). Se non fosse, anche, per le strade chiuse da blocchi di cemento nel quartiere delle ambasciate, le guardie armate davanti alle case dell'élite, i bunker di sacchi di sabbia e filo spinato a guardia dei ministeri e di certe guest-house. O del vero e proprio fortino che è il palazzo presidenziale dove vive Hamid Karzai (le sue guardie del corpo da qualche mese non sono più americane ma afghane).
L'apparenza però inganna solo nel centro della città. La tensione è alta. L'insofferenza verso quella certa arroganza delle forze armate straniere è scoppiata lo scorso maggio in disordini violenti dopo che un convoglio militare americano aveva investito delle auto civili e poi sparato sulla folla che protestava. Soprattutto, è molto forte il senso di insicurezza. Non sono gli occidentali a sentirsi minacciati, anche se molti vivono nei loro compound protetti: sono prima di tutti gli afghani. La criminalità comune dilaga con vere e proprie gang, rapimenti a scopo di riscatto con ostaggi afghani che non fanno molta notizia, rapine che finiscono nel sangue, racconti di angherie e abusi commessi dai poliziotti. All'ospedale di Emergency gli interventi chirurgici sono aumentati del 30% dal 2003 a oggi, dice il direttore sanitario (e chirurgo) Marco Garatti: tra il 60 e il 70 per cento sono traumatologia ‟normale”, incidenti o altro, ma un terzo sono ferite di arma da fuoco o da taglio. Un farmacista racconta che nel Dipartimento 7, alla periferia della città, il mullah nella sua predica ha esortato gli uomini a tenere un kalashnikov in casa, per difendere la famiglia.
Quando parlano di ‟insicurezza”, gli abitanti di Kabul si riferiscono prima di tutto a questa violenza quotidiana. Poi, ovvio, ai suicide-bomber: l'ultimo episodio è stato un mese fa, un uomo si è fatto esplodere davanti a un ufficio pubblico, tra persone qualsiasi. Gli attentati-suicidi sono aumentati in tutto l'Afghanistan: circa 90 casi quest'anno, contro 20 l'anno scorso e 4 l'anno prima. E' una strategia. Una cosa è ingaggiare combattimenti con le truppe della Nato, altra è colpire la popolazione (creare terrore, accreditarsi come una forza capace di arrivare fin nel centro di Kabul: ci sono opinioni contrastanti su quanto siano realmente forti i ribelli antigovernativi, e colpire nel centro della capitale è parte di una battaglia mediatica). Poi ci sono le night letters, i proclami volantinati la notte: dicono di non mandare le figlie a scuola, oppure di non lavorare con gli infedeli. Non a Kabul, ma non molto lontano: di recente a Ghazni, città a un'ora e mezza di strada verso sud, un proclama notturno ha vietato di lavorare con le organizzazioni umanitarie straniere: se uno tiene alla propria vita obbedisce, un paio di medici hanno lascato il loro impiego con ong straniere. Ghazni è considerata ormai sotto controllo dei taleban. Anche Wardak, appena un'ora da qui. Shomali, distretto appena a nord della capitale, quasi. Le scuole sono state prese come simbolo del cedimento ideologico agli infedeli stranieri, ogni tanto una scuola viene attaccata o un'insegnante ucciso (uccisa): tra aprile e luglio di quest'anno 208 scuole sono state chiuse nelle province del sud e dell'est notorie per la ribellione (Kandahar, Helmand, Khost, Paktika, Zabul, Ghazni).
A ben vedere, Kabul è una (apparente) normalità assediata. Ogni interlocutore trasmette la sensazione che presto qualcosa succederà, e nessuno scommette che sia per il meglio. Corrono voci: ieri tra i visitatori di un ministero importante si diceva che ‟stanno trattando con Gulbuddin”, un ‟loro” imprecisato (il governo di Karzai, le forze Isaf-Nato?) starebbe trattando con Hekmatyar, uno dei comandanti della resistenza antisovietica (chiamati ‟mojaheddin” da chi li apprezza o li teme, e ‟signori della guerra” dagli altri). Capo del Hezb-e Islami (partito dell'islam), Hekmatyar è uno dei protagonisti della guerra civile che ha insanguinato l'Afghanistan tra il '91 e il '96, l'unico tra gli ex capi mojaheddin a non essere entrato nel governo Karzai. Anzi, si è alleato con i taleban (che a suo tempo combatteva) e pare stia rafforzando la sua influenza dall'alto Panjsheer e dal Nuristan nel nord fino all'est del paese, cercando di accreditarsi come leader di un movimento di indipendenza nazionale contro le forze straniere almeno ‟alla pari” con i taleban di mullah Omar.
‟Diciamo le cose come stanno: il paese è in mano ai signori della guerra e alle mafie”, dice il signor A. Wasi, economista e già caporedattore di un settimanale indipendente, Rozgaran, che lo scorso maggio ha chiuso per mancanza di fondi (la comunità internazionale qui finanzia con generosità le iniziative della società civile, ne fa un segno di successo dela transizione democratica, ma il piccolo setimanale non ha trovato sostegno: ‟Ci chiedevano di cambiare tono e non criticare il governo Karzai, e questo non lo abbiamo accettato”). Il presidente Karzai ‟ha promesso molte cose ma ha mantenuto poco”, dice Wasi. ‟La sicurezza è peggiorata per diversi motivi, interni ed esterni. E il primo sono i warlord, gli ex mojaheddin”. Che elenca: il generale Dostum con il suo Movimento nazionale islamico, Abdul Rasul Sayyaf con la sua Ittihad-e islami, la Jamiat-e Islami di Burhanuddin Rabbani, e via elencando - l'ex ministro della difesa Fahim, l'ex governatore di Herat Ismail Khan.... ‟Karzai ha trovato un compromesso con loro, ciascuno ha avuto il suo feudo o la sua posizione di governo da cui continua a esercitare il suo potere personale proprio come faceva prima”. Cita poi la coltivazione del papavero da oppio, che costituisce una parte cospicua del reddito nazionale ancorché illegale e alimenta trafficanti e mafiosi. Si aggiungano la corruzione dilagante e la povertà: ‟Il governo Karzai ha avuto l'aiuto finanziario internazionale ma non ha saputo cambiare la vita degli afghani, chi può emigra a lavorare in Iran o in Pakistan”. I bombardamenti indiscriminati delle forze occidentali, che uccidono tanti innocenti: ‟Dicono che è per errore, ma la popolazione afghana è sempre più ostile, soprattutto agli americani”.
La diagnosi è simile a quella degli interlocutori più diversi. ‟Nel 2001 gli afghani avevano molte aspettative, ma cinque anni dopo cosa vedono? Il parlamento è pieno di criminali di guerra e trafficanti d'oppio e la corruzione non è mai stata tanto diffusa: dall'ufficio della presidenza alla carica più bassa, ogni pubblico ufficiale crede proprio diritto intascare. Mentre la ricostruzione non decolla, nelle campagne mancano i sistemi di irrigazione, la gente non trova lavoro, gran parte della capitale non ha neppure l'energia elettrica”. Già: a Kabul solo gli ospedali e alcuni edifici pubblici hanno energia 24 ore al giorno. Alcuni quartieri chic la ricevono alcune ore nel pomeriggio, gli altri a volte: la città vive con i generatori (chi può permettersi il gasolio) o le lampade a petrolio. Per non parlare delle zone di casupole arrampicate sulle colline che punteggiano la città, mattoni di terra e vicoli ripidi che diventano torrentelli fangosi quando piove (niente fognature, acqua corrente solo nelle zone più basse). E dire che Kabul sarebbe la vetrina di un ‟caso di successo” di costruzione della democrazia.

Marina Forti

Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …