Renato Barilli: Mondrian, gli alberi dell’ingegnere

27 Novembre 2006
Ho già osservato che le due mostre da cui è costituito il pacchetto fornito da Marco Goldin nello spazio bresciano di Santa Giulia sono di esito diverso tra loro. La prima, su cui senza dubbio il curatore punta al massimo, è dedicata a William Turner, e fin qui tutto bene, dato che l’artista inglese è senza dubbio uno dei più grandi paesaggisti di tutti i tempi, con capacità di impatto anche sul nostro oggi. Ma poi Goldin ne annega la forte presenza in un mare di Impressionisti francesi, costringendolo nella parte di prologo, di Battista, venuto ad annunciare l’immancabile grandezza di Monet e compagni. Il pubblico, soprattutto di anziani, è senza dubbio contento di un prodotto così confezionato, gremisce gli stretti budelli di Santa Giulia, titillato nel vano e inutile rimpianto nostalgico per valori scomparsi per sempre. Ma lì accanto, in altre sale, lo stesso Goldin fornisce l’antidoto, cioè una mostra dedicata all’olandese Pîet Mondrian, 1872-1944 (a cura di Fred Leeman, fino al 25 marzo), grande protagonista dell’avventura novecentesca, una delle cui premesse è stata proprio di prendere congedo da un soffocante naturalismo-sensibilismo, giudicato simile a una specie di intossicazione. Occorreva andare a respirare a pieni polmoni, e soprattutto partecipare all’impresa principale del nostro tempo, il processo di industrializzazione, l’urbanesimo, l’imposizione, insomma, del dominio dell’homo faber, che prende nelle sue mani la propria sorte e costruisce caparbiamente, eroicamente, un universo a sua misura. Purtroppo non si può servire a due padroni, l’esito del confronto tra le due proposte bresciane è che appunto una folla di anziani nostalgici si accalca ad ammirare i palpiti, le frasche al vento del monettismo, e assai pochi (almeno nel giorno della mia visita) osano invece varcare la soglia dell’altra faccia della realtà.
Ovviamente Mondrian, data la sua nascita così arretrata, venuta un decennio prima di Picasso e Boccioni, cioè degli alfieri della rivoluzione cubo-futurista, all’inizio si trova impaludato nei canneti, negli stagni del naturalismo, che a lui giungeva anche attraverso l’episodio della Scuola dell’Aia, fiancheggiatrice del capitolo impressionista. Ma per sua fortuna il paesaggio patrio era tale da aiutarlo a sfrondare la visione: privo di colline, dominato da una linea piatta dell’orizzonte, da praterie sconfinate, sempre minacciate dal mare incalzante. E su quella estesa orizzontale scatta il verticalismo dei tronchi d’albero, betulle o altre piante adatte al clima del Nord. Però, purtroppo, gli alberi portano con sé le chiome, i rami talvolta biforcano e si inarcano, insomma, in natura esiste la curva, che mal si adatta al grande sogno dell’homo faber, deciso a costruire il proprio regno a colpi di coordinate cartesiane. Da qui scaturisce un’epica lotta tra l’artista e il dato curvilineo fornito dal suo pur amato paesaggio, e la mostra, che si avvale di preziosi prestiti dalla casa madre dell’artista, il Gementemuseum dell'Aia, documenta in misura perfetta questo accanito conflitto. Mondrian ‟deve” raddrizzare il fatale errore della natura, il disturbante inserimento del ‟pi greco”, cioè di quel numerino irrazionale che turba i calcoli della ragione. Non sono solo gli elementi vegetali, a insinuare questo ‟errore” del curvilineo, in quanto dei motivi sinuosi compaiono anche nelle dune del paesaggio olandese, e nei fiori, e beninteso anche nel corpo e volto umani, e dunque anche su questi elementi si abbatte la furia rettificante di Mondrian. Magari, col senno del poi, possiamo anche giudicare eccessivo il suo accanimento, giacché dopo i tempi del moderno e dell’industrialismo sono venute, ai nostri giorni, le stagioni del postmoderno e della postindustria, sorrette dalle onde virtuali attraverso cui si manifesta il fondamentale fenomeno dell’elettromagnetismo. Ma non si può essere antistorici, nei primi decenni del XX° secolo bisognava compiere quell’eroico sforzo, imporre ovunque il trionfo del rettilineo, dell’angolo a novanta gradi, e nessuno meglio di Mondrian vi si è impegnato con successo.
Sono rimaste celebri alcune sue imprese in tal senso, ottimamente documentate in mostra: la serie dedicata al melo, in una successione di dipinti tra il 1911 e il ’13 che davvero scandisce la marcia trionfale dell’età delle macchine: dapprima il melo dispiega il rigoglio delle sue biforcazioni, ma l’artista si affretta a incunearvi come delle zeppe, o degli spessori di liquido, chiamato a congelarsi, e così a esercitare una pressione sui rami, disarticolandoli, obbligandoli ad aderire a uno spartito sempre più schematico. Passo passo la natura, coi suoi tremori ed errori, se ne va, sostituita da griglie mentali. Per qualche tempo i reticoli di purissime orizzontali-verticali tentano, almeno, di restituire l’intrico della vegetazione, ma poi, dal ’17 in avanti, e nei quasi tre decenni che gli restano da vivere, il grande olandese scarnifica ulteriormente la visione, lascia sopravvivere solo nudi tralicci, sbarre di un nero scattante come una ferita, su cui inserisce dei pannelli monocromi, campiti coi pochi colori fondamentali, rosso giallo blu. La natura è definitivamente sostituita, abrogata, il progetto ingegneresco impone da un capo all’altro il proprio dominio. Chi visita le sale di questa mostra capisce il destino dell’uomo, almeno per la prima metà del Novecento.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …