Massimo Mucchetti: Non sarà facile smontare Tremonti e la “sua” Bankitalia

11 Dicembre 2006
Smontare Tremonti? Pur partendo da interessi diversi, la Banca d’Italia e le banche, che ne detengono il capitale, intendono evitare che l’istituzione di palazzo Koch venga nazionalizzata. Il 28 novembre, nell’assemblea per il nuovo statuto, è emersa una comune insoddisfazione sui termini, peraltro vaghi, con i quali la legge sul risparmio stabilisce il trasferimento delle quote allo Stato o ad altri enti pubblici entro il 2008. Ma smontare Tremonti non sarà facile. Le banche si oppongono per ragioni venali: il trasferimento coatto delle loro quote per gli 800 milioni previsti dall’ex ministro dell’Economia sarebbe un esproprio senza l’equo indennizzo garantito dalla Costituzione. A loro variabile avviso, la banca centrale vale da 12 a 25 miliardi e, secondo alcune, addirittura 40. Il governatore Mario Draghi, invece, vola alto. Senza parlare di prezzi, materia sulla quale mai si è pronunciato un banchiere centrale, chiede al governo di salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza della Banca d’Italia meglio di quanto non faccia la legge tremontiana sul passaggio delle quote. Autonomia e indipendenza sono valori che hanno indiretto rilievo costituzionale. Sono infatti alla base del Sistema europeo di banche centrali del quale la banca centrale italiana fa parte e che ha rango costituzionale come tutti i trattati internazionali. E il governo? Una cosa è certa: il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa- Schioppa, non potrà mai pagare quanto chiedono le banche non solo perché non ha i soldi, ma anche perché le pretendenti non meritano tanto. Il patrimonio netto della Banca d’Italia, rettificato dei conti di rivalutazione, tocca i 44 miliardi di euro, è vero. Ma è la somma degli utili non distribuiti dal 1936 grazie al signoraggio sulla moneta, alla manovra sul cambio, alle attività di sconto e anticipazione e fronteggia le riserve auree: tutte attività svolte in regime di esclusiva per conto dello Stato. L’investimento reale fatto dai quotisti è pari a 156 mila euro del ‘36 che equivalgono a 275 milioni di oggi. E i flussi di cassa ottenuti dalla loro partecipazione al capitale, una cinquantina di milioni l’anno, fissano in 1,2 miliardi il valore della Banca d’Italia di loro pertinenza dal punto di vista reddituale. Le banche, certo, esprimono il Consiglio superiore della Banca d’Italia. Ma lo esprimono solo formalmente perché nella sostanza i suoi membri sono persone gradite, se non scelte, da via Nazionale, e questo Consiglio sovrintende all’amministrazione interna e non alle politiche. Potrebbero vantarsi, le banche, di aver lasciato fare i banchieri centrali: di essere state, cioè, brave azioniste. Ma sarebbe un argomento debole, perché i vigilati mai avrebbero potuto contestare il vigilante, e mai lo hanno fatto, tranne che per l’ultimo Fazio. Come risolvere questa equazione che nei vincoli del bilancio pubblico, nel diritto a un indennizzo equo (e non meritato) e nella salvaguardia dei principi di autonomia e indipendenza ha le sue tre incognite? Ogni soluzione parte dalla premessa che le banche accettino un prezzo equitativo. Cossiga disse una volta che 5 miliardi sarebbero bastati, e forse ha peccato di generosità. Se poi non si faranno scendere in campo il Tesoro o altri enti pubblici, si otterrà il duplice obiettivo di evitare la nazionalizzazione e di non far gravare un’inutile spesa sul bilancio dello Stato. A quel punto, potrà forse essere studiato il riacquisto delle quote a opera della Banca d’Italia (che ne avrebbe i mezzi) e la loro contestuale riassegnazione all’intero sistema bancario in tante piccole carature con rigidi vincoli al possesso e al commercio delle medesime, recepiti per legge nello spirito, del resto, del nuovo statuto che esige la equilibrata distribuzione.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …