Umberto Galimberti: Dalla parte delle madri

11 Dicembre 2006
‟Apolline aspetta un figlio, si sente strana, diversa rispetto alle altre gravidanze. Eppure il medico non ha dubbi: è tutto a posto. Il bambino cresce bene e tutti gli esami sono rassicuranti: ma Apolline è inquieta, come se si trattasse del primo figlio. Le sembra di non sapere niente del parto e di quello che viene dopo. Ha vissuto questi ultimi mesi come se dovesse affrontare qualcosa di ignoto, non osando confessare a chi le sta vicino che ha dei sentimenti strani riguardo a questa nuova maternità”.
Così prende avvio il libro di Sophie Marinopoulos, psicologa clinica e psicoanalista, che esercita a Nantes presso il reparto maternità del centro ospedaliero universitario. Il libro titola Nell’intimo delle madri. Luci e ombre della maternità . La tesi è che l’amore materno non è mai solo amore, perché ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore, e anche se non si arriva ai casi di infanticidio (il cui ritmo inquietante più non ci consente di relegare queste tragedie nella casistica psichiatrica e qui liquidarle nel perfetto stile della rimozione), l’ambivalenza del sentimento materno obbliga tutti noi a una riflessione più seria, che solo il terrore di sfiorare qualcosa che appartiene alla sfera del sacro ci evita di affrontare.
E così finiamo con il sapere troppo poco di noi e della potenza dei nostri moti inconsci. La retorica dei buoni sentimenti è una spessa coltre che stendiamo sull’ambivalenza della nostra anima, dove l’amore si incatena con l’odio, il piacere con il dolore, la benedizione con la maledizione, la luce del giorno con il buio della notte, perché nel profondo tutte le cose sono intrecciate in un’invisibile disarmonia. E scrutare l’abisso che queste cose sottende è compito ormai trascurato della nostra cultura, che con troppa semplicità distingue il bene dal male, come se i due non si fossero mai incontrati e affratellati.
Nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell’altra. Una soggettività che dice ‟io” e una soggettività che fa sentire la donna ‟depositaria della specie”.
Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno, ma anche dell’odio materno, perché, come ci ricorda Sophie Marinopoulos, il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. Se poi il figlio è figlio dell’illegalità, del tradimento, della povertà, della paura, della sprovvedutezza, allora non solo il conflitto tra le due soggettività, ma anche l’impossibilità di prefigurare un futuro per il figlio scava nell’inconscio della madre quel che non vuol vedere e constatare ogni giorno: che il proprio figlio è troppo distante troppo dissimile dal proprio sogno o dal proprio desiderio.
È a questo punto che l’ambivalenza amore-odio, che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, si potenzia e chiede una soluzione che non può trovarsi se non nel riconoscimento e nell’accettazione di questa ambivalenza come cosa naturale, e non con il senso di colpa che può nascere dall’interpretarla come incompiutezza o inautenticità del proprio sentimento.
Ma oggi tutto si complica per effetto della trasformazione che in questi anni ha subito la famiglia: troppo nucleare, troppo isolata, troppo racchiusa nelle pareti di casa che, divenute troppo spesse, la recingono e la secretano, creando l’ambiente adatto alla disperazione, che non è la depressione. Nel chiuso di quelle pareti ogni problema si ingigantisce perché non c’è un altro punto di vista, un termine di confronto che possa relativizzare il problema, o che consenta di diluirlo nella comunicazione, quando non di attutirlo nell’aiuto e nel confronto che dagli altri può venire.
Il nucleo familiare, osserva infatti Sophie Marinopoulos, è diventato oggi un nucleo asociale. Quel che succede in casa resta lì compresso e incomunicato. Quando si esce di casa, ciascuno indossa una maschera, quella convenuta, il cui compito è di non lasciar trasparire proprio nulla dei drammi, delle gioie o dei dolori che si vivono dentro quelle mura ben protette.
La tutela della privacy ha proprio nella famiglia il suo cono d’ombra. La non ingerenza nel privato, se da un lato è il fondamento della nostra libertà personale, è anche un fattore di disinteressamento reciproco, e quindi una macchina formidabile che crea solitudine e, nella solitudine, quell’ingigantimento dei problemi che la comunicazione sa ricondurre nella loro giusta dimensione, mentre l’isolamento li rende di proporzioni tali da farli apparire ingestibili. Fino a quel limite, dove l’unica via d’uscita sembra la soppressione violenta del problema, non importa in quale modo.
L’incapacità di gestire un regime familiare, dove le difficoltà oggettive possono mescolarsi con i fantasmi della mente e con le speranze deluse, produce una tragedia che forse poteva essere evitata se quel nucleo familiare si fosse aperto e reso permeabile allo scambio sociale, come accadeva presso i primitivi dove i figli erano figli di tutte le donne del villaggio, come accadeva fino a un paio di generazioni fa anche da noi, dove la povertà facilitava la socializzazione e l’aiuto reciproco, in quell’incessante andare e venire tra vicini di casa che rendeva impossibile, quando non addirittura innaturale, l’isolamento della famiglia.
La riduzione dei contatti sociali potenzia gli oggetti d’amore che per la donna, relegata nella clausura della famiglia, sono i figli e il marito. Al giorno d’oggi queste dinamiche si sono complicate terribilmente, perché l’uomo ha perso il potere che una volta aveva come autorità riconosciuta in famiglia. Bene o male che fosse, forse più male che bene, ma così era.
Dimessa l’autorità, oggi l’uomo stenta a trovare un ruolo in famiglia che non sia quello un po’ estrinseco di chi porta i soldi a casa. Per il resto lavora fuori casa e, stante la liceità dell’odierno costume, tende a erotizzare anche fuori casa.
All’interno della casa resta solo l’amore incondizionato per i figli, più come idea, più come sentimento che come pratica quotidiana, di solito relegata alla madre o all’esercito delle baby-sitter. La madre è lì, spesso, solo come anello che chiude il nucleo isolato del sistema famiglia.
Occorre allora denunciare, come fa Sophie Marinopoulos, la cultura dell’isolamento in cui la sacralizzazione del privato ha ridotto di fatto la famiglia, che troppo spesso registra in sé l’effetto del collasso sociale. Se infatti la società è solo la sommatoria delle solitudini delle famiglie, e i valori che oggi circolano non sono più solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, ma business, immagine, ricchezza, tranquillità, tutela della privacy, perché una famiglia inavvertita e inascoltata, e che a sua volta non ha voglia di farsi notare né di parlare, perché questa famiglia dovrebbe essere indotta a generare e per giunta con gioia?
Il rimedio suggerito è allora quello di ‟accudire le madri”, perché, per la forma che ha assunto la nostra società, forse, per molte donne, troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l’occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l’anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non tanto come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all’amore separandolo dall’odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il sentimento truce.
E allora non basta che i padri assistano al parto, come è costume dei tempi, molto più utile assistere madre e figlio nel logorio della quotidianità, accarezzare l’una e l’altro per creare quell’atmosfera di protezione che scalda il cuore e tiene separato l’amore dall’odio. Lavoro arduo, che tutti coloro che amano conoscono in quella sottile esperienza dove incerto è il confine tra un abbraccio che accoglie e un abbraccio che avvinghia e strozza.
La natura contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce nell’isolamento e nella solitudine, conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei. Per questo, natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell’accudimento e della cura.
Dove a essere accudito, prima del figlio che segue la sua cadenza biologica, è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi il suo tempo, poi il suo spazio esteriore e interiore, infine l’ambivalenza delle sue emozioni che camminano sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele, che le madri avvertono quando affondano in quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell’abisso della solitudine.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …