Gad Lerner: Perché cresce la schiera dei politici senza partito
18 Gennaio 2007
Fa impressione, e dovrebbe suscitare allarme, l’incremento dei politici senza partito. Battitori liberi, giocatori in proprio, sempre più spesso occupano ruoli di massima responsabilità ai vertici nazionali, regionali, comunali del sistema politico. Non si tratta più di "tecnici" che si mettono al servizio della politica, come l’attuale ministro dell’Economia o l’ex presidente della Repubblica, ma al contrario di personalità rimaste senza partito. Oppure all’inseguimento, talvolta da anni, di un partito che non c’è ancora.
Come definirli, allora? Oriundi? Senza tessera? Politici in sospeso? Tecnici della politica? Fatto sta che i politici senza partito rappresentano ormai - per qualità e quantità - una componente di tutto rispetto del sistema. E al tempo stesso rivelano una pericolosa tendenza: i partiti, strumenti essenziali della democrazia rappresentativa, nelle condizioni vigenti possono sembrare meno necessari, anche perché deformati da una tendenza oligarchica. Perfino fra i loro dirigenti affiora il dubbio che per contare di più convenga farne a meno.
Dopo anni di stucchevole contrapposizione retorica fra i partiti e una (non meglio definita) società civile, adesso è la stessa classe politica che rischia di frantumarsi in un ginepraio di rappresentanze personalistiche. Il primo dei politici senza partito, come si sa, è il premier Romano Prodi. Che avrebbe preferito giungere a Palazzo Chigi come capo di un Partito democratico, ma ciò non è accaduto.
È anche il caso del ministro dell’Interno, Giuliano Amato, pure lui in attesa di Partito democratico. Ma nel frattempo non gli è bastato essere vicepresidente del Partito socialista europeo per ottenere dai Ds un posto da capolista nella sua circoscrizione elettorale. Anche Amato, dunque, va considerato un politico senza partito.
Al vertice delle regioni i senza partito sono quattro: il friulano Riccardo Illy, il laziale Piero Marrazzo, il sardo Renato Soru, cui si è aggiunta la piemontese Mercedes Bresso.
Fra i numerosi sindaci senza partito ricordiamo la prima cittadina di Milano, Letizia Moratti, il sindaco di Bari, Michele Emiliano, e il sindaco di Genova, Giuseppe Pericu. Ma è evidente che un leader nazionale come il sindaco di Roma, Walter Veltroni, accresce vistosamente il suo ruolo politico a prescindere dall’appartenenza al partito dei Ds, di cui pure sei anni fa era il segretario. Si può anzi sostenere che il richiamo del progetto di Veltroni deriva proprio dal suo porsi al di sopra e al di fuori del partito. Riesce sempre più difficile, peraltro, inquadrare in un orizzonte di partito l’azione politica di figure come Massimo Cacciari, sindaco di Venezia iscritto alla Margherita, o Filippo Penati, presidente della provincia di Milano, iscritto ai Ds, o Antonio Bassolino, presidente della regione Campania, anche lui dirigente della Quercia.
Nel centrodestra il fenomeno appare meno accentuato (Marco Follini, a suo modo Gianni Letta) forse perché in quello schieramento hanno storicamente maggiore autonomia i notabilati locali. Ma nel frattempo un paese che ha già digerito il fenomeno del partito-azienda (Berlusconi) e dei partitini ad personam (Mastella, Di Pietro), vive oggi un nuovo smottamento: la frammentazione enfatizza il ruolo dei singoli, magari dotati di forte consenso personale. Ma li riduce a estrema debolezza nel confronto con i nuovi primattori del potere - banchieri, supermanager, editori - capaci di notevole influenza politica col vantaggio di restare esenti da verifica elettorale.
Così inquadrata, assume un significato diverso anche la recente diaspora diessina: il distacco di esponenti come Nicola Rossi, Giuseppe Caldarola, la già citata Mercedes Bresso. Sono stati eletti all’interno di un progetto unitario intermedio, l’Ulivo, il cui esito previsto è dare vita a un nuovo partito. Ma intanto le difficoltà favoriscono il "rompete le righe". Il sistema politico, così com’è strutturato oggi, non solo tollera le scelte personali: addirittura le rende convenienti.
Vero è che la legge elettorale vigente, se non venisse modificata, tra quattro anni confischerà di nuovo a vantaggio di una ristretta cerchia di dirigenti di partito la selezione delle candidature. Terranno loro il coltello dalla parte del manico, e allora saranno guai per i politici senza partito. Il prezzo però lo conosciamo bene: un irreparabile distacco dei cittadini dalla partecipazione democratica di cui già si avvertono i sintomi. L’allarme è stato lanciato dallo stesso presidente Napolitano.
Il referendum abrogativo di due parti essenziali della legge elettorale (il premio di maggioranza esteso ai partiti minori; e il malcostume delle candidature plurime) ha per l’appunto lo scopo di frenare il distacco dei cittadini dalla politica, se nel frattempo il Parlamento non troverà l’auspicabile intesa per una riforma condivisa. A tale scopo la raccolta di firme verrà avviata la prossima primavera, di modo che il referendum possa tenersi nel 2008. Senza che ciò comporti necessariamente un’interruzione anticipata della legislatura: il centrodestra, con Fini e Tremonti, ha interesse a evocare un automatismo - nuova legge elettorale, quindi ritorno alle urne - che non sta scritto in nessun codice.
Ma la deriva segnalata anche dalla proliferazione dei politici senza partito, dovrebbe indurre i politici più lungimiranti a raccogliere le forze per dare vita a un’autoriforma di cui il referendum rappresenta solo un passaggio, diciamo così, distruttivo. Un’autoriforma della politica, finchè siamo in tempo, che ha bisogno di trovare punti di riferimento autorevoli dentro al sistema e non solo fra le associazioni di base dei cittadini.
Penso a personalità come Giuliano Amato, che ha già denunciato su questo giornale i pericoli di degenerazione populista della nostra democrazia. Figure che per esperienza generazionale, credibilità, disinteresse personale, possano dedicarsi alla sfida più nobile della politica: un’autoriforma delle regole e dei comportamenti per restituire sovranità ai cittadini, sollecitarne la partecipazione, ricostruire un senso di comunità.
Stiamo parlando di una malattia che aggredisce l’insieme del sistema politico e ogni sua articolazione di partito. Il ritardo e le difficoltà nella costruzione di un Partito democratico che sia davvero democratico ne sono oggi il sintomo più evidente: restiamo un paese in cui è molto più facile fondare un partitino personale che un’azienda.
Dopo anni di stucchevole contrapposizione retorica fra i partiti e una (non meglio definita) società civile, adesso è la stessa classe politica che rischia di frantumarsi in un ginepraio di rappresentanze personalistiche. Il primo dei politici senza partito, come si sa, è il premier Romano Prodi. Che avrebbe preferito giungere a Palazzo Chigi come capo di un Partito democratico, ma ciò non è accaduto.
È anche il caso del ministro dell’Interno, Giuliano Amato, pure lui in attesa di Partito democratico. Ma nel frattempo non gli è bastato essere vicepresidente del Partito socialista europeo per ottenere dai Ds un posto da capolista nella sua circoscrizione elettorale. Anche Amato, dunque, va considerato un politico senza partito.
Al vertice delle regioni i senza partito sono quattro: il friulano Riccardo Illy, il laziale Piero Marrazzo, il sardo Renato Soru, cui si è aggiunta la piemontese Mercedes Bresso.
Fra i numerosi sindaci senza partito ricordiamo la prima cittadina di Milano, Letizia Moratti, il sindaco di Bari, Michele Emiliano, e il sindaco di Genova, Giuseppe Pericu. Ma è evidente che un leader nazionale come il sindaco di Roma, Walter Veltroni, accresce vistosamente il suo ruolo politico a prescindere dall’appartenenza al partito dei Ds, di cui pure sei anni fa era il segretario. Si può anzi sostenere che il richiamo del progetto di Veltroni deriva proprio dal suo porsi al di sopra e al di fuori del partito. Riesce sempre più difficile, peraltro, inquadrare in un orizzonte di partito l’azione politica di figure come Massimo Cacciari, sindaco di Venezia iscritto alla Margherita, o Filippo Penati, presidente della provincia di Milano, iscritto ai Ds, o Antonio Bassolino, presidente della regione Campania, anche lui dirigente della Quercia.
Nel centrodestra il fenomeno appare meno accentuato (Marco Follini, a suo modo Gianni Letta) forse perché in quello schieramento hanno storicamente maggiore autonomia i notabilati locali. Ma nel frattempo un paese che ha già digerito il fenomeno del partito-azienda (Berlusconi) e dei partitini ad personam (Mastella, Di Pietro), vive oggi un nuovo smottamento: la frammentazione enfatizza il ruolo dei singoli, magari dotati di forte consenso personale. Ma li riduce a estrema debolezza nel confronto con i nuovi primattori del potere - banchieri, supermanager, editori - capaci di notevole influenza politica col vantaggio di restare esenti da verifica elettorale.
Così inquadrata, assume un significato diverso anche la recente diaspora diessina: il distacco di esponenti come Nicola Rossi, Giuseppe Caldarola, la già citata Mercedes Bresso. Sono stati eletti all’interno di un progetto unitario intermedio, l’Ulivo, il cui esito previsto è dare vita a un nuovo partito. Ma intanto le difficoltà favoriscono il "rompete le righe". Il sistema politico, così com’è strutturato oggi, non solo tollera le scelte personali: addirittura le rende convenienti.
Vero è che la legge elettorale vigente, se non venisse modificata, tra quattro anni confischerà di nuovo a vantaggio di una ristretta cerchia di dirigenti di partito la selezione delle candidature. Terranno loro il coltello dalla parte del manico, e allora saranno guai per i politici senza partito. Il prezzo però lo conosciamo bene: un irreparabile distacco dei cittadini dalla partecipazione democratica di cui già si avvertono i sintomi. L’allarme è stato lanciato dallo stesso presidente Napolitano.
Il referendum abrogativo di due parti essenziali della legge elettorale (il premio di maggioranza esteso ai partiti minori; e il malcostume delle candidature plurime) ha per l’appunto lo scopo di frenare il distacco dei cittadini dalla politica, se nel frattempo il Parlamento non troverà l’auspicabile intesa per una riforma condivisa. A tale scopo la raccolta di firme verrà avviata la prossima primavera, di modo che il referendum possa tenersi nel 2008. Senza che ciò comporti necessariamente un’interruzione anticipata della legislatura: il centrodestra, con Fini e Tremonti, ha interesse a evocare un automatismo - nuova legge elettorale, quindi ritorno alle urne - che non sta scritto in nessun codice.
Ma la deriva segnalata anche dalla proliferazione dei politici senza partito, dovrebbe indurre i politici più lungimiranti a raccogliere le forze per dare vita a un’autoriforma di cui il referendum rappresenta solo un passaggio, diciamo così, distruttivo. Un’autoriforma della politica, finchè siamo in tempo, che ha bisogno di trovare punti di riferimento autorevoli dentro al sistema e non solo fra le associazioni di base dei cittadini.
Penso a personalità come Giuliano Amato, che ha già denunciato su questo giornale i pericoli di degenerazione populista della nostra democrazia. Figure che per esperienza generazionale, credibilità, disinteresse personale, possano dedicarsi alla sfida più nobile della politica: un’autoriforma delle regole e dei comportamenti per restituire sovranità ai cittadini, sollecitarne la partecipazione, ricostruire un senso di comunità.
Stiamo parlando di una malattia che aggredisce l’insieme del sistema politico e ogni sua articolazione di partito. Il ritardo e le difficoltà nella costruzione di un Partito democratico che sia davvero democratico ne sono oggi il sintomo più evidente: restiamo un paese in cui è molto più facile fondare un partitino personale che un’azienda.
Gad Lerner
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate …