Giorgio Bocca: Leopoldo Pirelli. Lamato fratello decise la sua vita
24 Gennaio 2007
La prima volta che lo vidi fu nell’anno di grazia 1960 a una assemblea della Bastogi che allora era la camera di compensazione dell’alta finanza italiana. Seduto fra i signori del capitalismo lui Leopoldo Pirelli con i Valerio, Pesenti, Falck, Bruno, Agnelli tutti con facce lunghe e pallide, gotiche, come in un coro di vescovi medievali.
Alla destra i consiglieri, un principe romano, un generale in pensione e i sindaci già pronti a firmare i bilanci e a intascare il gettone di presenza.
Non era il primogenito Leopoldo e il padre gli preferiva Giovanni. Come nelle grandi famiglie alto borghesi i destini dei fratelli erano già decisi: a Giovanni quello dell’antifascista colto, autore della raccolta delle lettere dei condannati a morte della Resistenza, a Leopoldo il lavoro in azienda, le riforme del sindacato, i ricevimenti della stampa per il Calendario. Insomma tirar la carretta, miliardaria ma sempre carretta. E Leopoldo aveva obbedito, era rimasto a Milano anche negli anni di guerra quando bisognava trasferire gli impianti in provincia e vedersela con il dottor Lammers, braccio destro di Himmler, nazista di ferro, ma questo lo sapemmo solo a guerra finita. Giovanni era brillante, estroso. A un capodanno in casa Orsi arrivò con uno splendido costume di seta nera del Cinquecento. Ma Leopoldo non era invidioso, lo adorava, gli riconosceva la parte del beniamino. L’altro personaggio che per lui era la pietra di paragone era Gianni Agnelli. Quando Agnelli firmò il contratto con la Russia per Togliattigrad lui cercò di imitarlo con la Dunlop ma fabbricare insieme palle da tennis non era la stessa cosa che fare automobili. Avevo intervistato Agnelli per ‟i giovani leoni del neocapitalismo” e intervistai Leopoldo per l’operazione Dunlop. Il cerimoniale era dettato dal Grattacielo Pirelli.
Giù in portineria una segretaria ti chiedeva: ‟Desidera?”.
E tu: ‟Ho un appuntamento con Leopoldo Pirelli”. Nientemeno! E la segretaria guardandoti con ammirazione e rispetto - così almeno mi pareva - ‟ascensore diretto per l’ultimo piano. Porta a sinistra”. E mi involavo fra un fruscio di corde metalliche verso il cielo dell’onnipotenza miliardaria. E invece, ora che ci ripenso, era solo il gioco impacciato di due timidi. Leopoldo - che noi allora non so bene perché chiamavamo Leopopoli - per darsi un contegno si faceva trovare con un bicchiere di whisky in mano come a dire, sono un gentleman, so come stare al piano più alto del grattacielo più alto di Milano e penso che non gli sia per niente piaciuto di doverlo cedere alla Regione. Era un uomo intelligente Leopoldo, aveva riformato la Confindustria, aveva guidato negli anni duri il colosso della gomma, ma nel confronto con Giovanni sembrava sempre pronto ad ammettere che il vero Pirelli era l’altro. Era gentile a volte affettuoso ma di lui ho ricordi impacciati come di un adolescente timido.
Una sera a Roma ci invitò a una sua cena, imbarazzante. Non c’era niente di serio da mettere sotto i denti, solo delle tartine un po’ secche. Venuta l’ora del congedo mentre ci avviavamo alla porta arriva un cameriere che porge un vassoio a Leopoldo, con una splendida orata al forno che lui guarda impacciato come colto in fallo. E anche una colazione sul suo yacht uno Swann costruito in Finlandia, con due spaghetti mal cotti che ci confermavano che per lui il cibo era un terribile trambascio.
Conoscendolo così come uomo timido e gentile ebbi una gran paura a posteriori quando il brigatista rosso Azzolini mi raccontò a San Vittore come avesse organizzato e fallito il tentativo di gambizzarlo. Potevo apprezzare il racconto perché ero stato nella casa di Leopoldo, una casa di un bianco totale disegnata da Vico Magistretti che aveva la fobia per gli odori di cucina e ai miliardari milanesi costruiva non case ma cliniche inodori e asettiche. Dunque il brigatista emiliano nato con il piacere di raccontare mi elencava le operazioni preparatorie per filo e per segno: prima cosa dovevamo segare la catenella davanti al garage, non dovevamo trovare ostacoli sulla via di fuga; dovevamo avere pronti i bavagli per i camerieri. E anche il fazzoletto con il cloroformio per addormentare subito lui. Era felice di poter raccontare il brigatista emiliano, non poteva trattenere una risata quando mi diceva che conosceva bene quei posti di Milano perché mangiava in un ristorante vicino alla Questura insieme ai poliziotti che gli davano inutilmente la caccia perché ‟un brigatista non ce lo ha mica scritto in faccia”.
Ci furono anche i giorni dell’incidente nella galleria di Recco da cui Giovanni uscì moribondo e Leopoldo con il volto devastato. E come fu difficile per noi e per lui abituarci a quella nuova faccia piagata. E fu allora che si mostrò un vero signore, un Pirelli coraggioso e paziente.
Non era il primogenito Leopoldo e il padre gli preferiva Giovanni. Come nelle grandi famiglie alto borghesi i destini dei fratelli erano già decisi: a Giovanni quello dell’antifascista colto, autore della raccolta delle lettere dei condannati a morte della Resistenza, a Leopoldo il lavoro in azienda, le riforme del sindacato, i ricevimenti della stampa per il Calendario. Insomma tirar la carretta, miliardaria ma sempre carretta. E Leopoldo aveva obbedito, era rimasto a Milano anche negli anni di guerra quando bisognava trasferire gli impianti in provincia e vedersela con il dottor Lammers, braccio destro di Himmler, nazista di ferro, ma questo lo sapemmo solo a guerra finita. Giovanni era brillante, estroso. A un capodanno in casa Orsi arrivò con uno splendido costume di seta nera del Cinquecento. Ma Leopoldo non era invidioso, lo adorava, gli riconosceva la parte del beniamino. L’altro personaggio che per lui era la pietra di paragone era Gianni Agnelli. Quando Agnelli firmò il contratto con la Russia per Togliattigrad lui cercò di imitarlo con la Dunlop ma fabbricare insieme palle da tennis non era la stessa cosa che fare automobili. Avevo intervistato Agnelli per ‟i giovani leoni del neocapitalismo” e intervistai Leopoldo per l’operazione Dunlop. Il cerimoniale era dettato dal Grattacielo Pirelli.
Giù in portineria una segretaria ti chiedeva: ‟Desidera?”.
E tu: ‟Ho un appuntamento con Leopoldo Pirelli”. Nientemeno! E la segretaria guardandoti con ammirazione e rispetto - così almeno mi pareva - ‟ascensore diretto per l’ultimo piano. Porta a sinistra”. E mi involavo fra un fruscio di corde metalliche verso il cielo dell’onnipotenza miliardaria. E invece, ora che ci ripenso, era solo il gioco impacciato di due timidi. Leopoldo - che noi allora non so bene perché chiamavamo Leopopoli - per darsi un contegno si faceva trovare con un bicchiere di whisky in mano come a dire, sono un gentleman, so come stare al piano più alto del grattacielo più alto di Milano e penso che non gli sia per niente piaciuto di doverlo cedere alla Regione. Era un uomo intelligente Leopoldo, aveva riformato la Confindustria, aveva guidato negli anni duri il colosso della gomma, ma nel confronto con Giovanni sembrava sempre pronto ad ammettere che il vero Pirelli era l’altro. Era gentile a volte affettuoso ma di lui ho ricordi impacciati come di un adolescente timido.
Una sera a Roma ci invitò a una sua cena, imbarazzante. Non c’era niente di serio da mettere sotto i denti, solo delle tartine un po’ secche. Venuta l’ora del congedo mentre ci avviavamo alla porta arriva un cameriere che porge un vassoio a Leopoldo, con una splendida orata al forno che lui guarda impacciato come colto in fallo. E anche una colazione sul suo yacht uno Swann costruito in Finlandia, con due spaghetti mal cotti che ci confermavano che per lui il cibo era un terribile trambascio.
Conoscendolo così come uomo timido e gentile ebbi una gran paura a posteriori quando il brigatista rosso Azzolini mi raccontò a San Vittore come avesse organizzato e fallito il tentativo di gambizzarlo. Potevo apprezzare il racconto perché ero stato nella casa di Leopoldo, una casa di un bianco totale disegnata da Vico Magistretti che aveva la fobia per gli odori di cucina e ai miliardari milanesi costruiva non case ma cliniche inodori e asettiche. Dunque il brigatista emiliano nato con il piacere di raccontare mi elencava le operazioni preparatorie per filo e per segno: prima cosa dovevamo segare la catenella davanti al garage, non dovevamo trovare ostacoli sulla via di fuga; dovevamo avere pronti i bavagli per i camerieri. E anche il fazzoletto con il cloroformio per addormentare subito lui. Era felice di poter raccontare il brigatista emiliano, non poteva trattenere una risata quando mi diceva che conosceva bene quei posti di Milano perché mangiava in un ristorante vicino alla Questura insieme ai poliziotti che gli davano inutilmente la caccia perché ‟un brigatista non ce lo ha mica scritto in faccia”.
Ci furono anche i giorni dell’incidente nella galleria di Recco da cui Giovanni uscì moribondo e Leopoldo con il volto devastato. E come fu difficile per noi e per lui abituarci a quella nuova faccia piagata. E fu allora che si mostrò un vero signore, un Pirelli coraggioso e paziente.
Giorgio Bocca
Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …