Renato Barilli: Arte contemporanea. Torna il “caldo”, ma non troppo

07 Febbraio 2007
Come sta andando la ricerca artistica, soprattutto presso le nuove generazioni, che sono quelle cui è affidato il destino del presente-futuro? Bene, si può rispondere, il secolo si è aperto con un suggestivo allargamento di possibilità. Per un verso, resistono le tecniche cosiddette extra-artistiche con cui si era concluso il Novecento, si fa ancora tanto uso del video e della foto, particolarmente nello sviluppo che le è concesso dal digitale; e poi, ci sono le installazioni, soprattutto nel filone detto del site specific, con adesione alle proprietà dei luoghi in cui si installa; e sono presenti pure le arguzie verbali, in cui consiste il ‟concettuale”. Queste modalità operative si pongono sotto il segno della smaterializzazione, o si potrebbe anche dire del ‟freddo”, con tante sollecitazioni mentali, e poche dei sensi. Ma per altro verso la situazione si va riscaldando, cerca di recuperare piaceri sensuali, sensibili, fisici. E così, ecco che la ‟vecchia signora”, la pittura, fa la sua ricomparsa, ma secondo le modalità incisive del graffitismo e del muralismo, o, come si direbbe nei dominanti termini dell’anglofonia, con ricorso al wall painting, il che prontamente si allea a un altro dei coefficienti ‟ritornanti”, la decorazione, l’ornamento. Cadono insomma certi divieti pronunciati a suo tempo, agli inizi del secolo scorso, nel clima del Movimento moderno, quando si dichiarava che ‟l’ornamento è un delitto”. Oggi, in regime postmoderno, l’asserzione viene ribaltata: l’ornamento appare come una necessità fisiologica dell’umanità. Si aggiunga infine un riaffacciarsi di materie di tradizione artigianale: ceramica, tessuti, perfino ricami.
Insomma, un quadro promettente, allettante, che però subisce un freno da parte di chi pure dovrebbe favorirlo, cioè dalla categoria dei giovani critici e curatori, i quali nutrono remore, riserve, ‟stanno dalla parte dei bottoni”, per paura di compromettersi, difendono un procedere al minimo, in riserva, col che sono colpevoli di quel generale offuscamento del made in Italy di cui si parla in tanti altri settori. Se si vuole un sintomo di tutto ciò, basterà prendere il Premio Furla, giunto alla sesta edizione, che certo si è qualificato come lo strumento più sensibile e specifico, in questo compito di pronto rilevamento dei migliori talenti giovanili, anche perché ad assegnarlo viene chiamata una giuria di stranieri, che però non partecipa alla selezione, e dunque giudica quel che passa il convento. Agli inizi il Furla era stato davvero indicativo, basti pensare che aveva prontamente segnalato una delle nostre giovani più vivaci e dotate, Sissi. Ma nelle ultime edizioni è divenuto scialbo, e conformista nel premiare compitini scipiti, colpevoli di essere aesthetically correct. L’attuale edizione (a cura di Chiara Bertola e Gianfranco Maraniello, Bologna, Villa delle Rose, fino al 10 marzo, cat. Charta) forse tocca il fondo in tal senso. Cinque, come al solito, sono gli artisti che hanno superato la selezione finale, ma di questi solo uno o due rispondono al largo identikit che ho tracciato sopra. Per esempio, Alice Cattaneo compone belle architetture precarie con l’aiuto di bastoncini, di asticciole: come giocare a ‟shangai”, erigere castelli in aria che basterebbe un filo d’aria per abbattere, ma la loro stessa fragilità si trasforma in valore. La Cattaneo affianca alle installazioni la produzione di video, affidati anch’essi a sollecitazioni del precario, come succede con un getto d’acqua che piove sulla protagonista, o con un lazo che cerca di imbrigliarla. Accanto a lei, una qualche consistenza la dimostra Nicola Gobbetto, che barrica l’ingresso della sua stanza con un cumulo di cubetti, come le facce di un diamante ingigantito. Ma gli altri sono tenui, evanescenti, Luca Trevisani perché fa scorrere, in video, delle gocce quasi invisibili, o si affida alla dissolvenza di blocchi di ghiaccio, Elenia Depedro perché mette in scena, con inutile ironia, il rito di un devoto copista di un capolavoro caravaggesco. Alla sponda opposta si situa Nico Vascellari, un giovane che ha senza dubbio forti qualità di scenografo, di impaginatore di eventi teatrali, ma tanta esuberanza entra a fatica nelle misure ridotte delle stanze di un museo.
Per fortuna altrove si trovano sondaggi più rispondenti al clima acceso di oggi. Paolo Campiglio, per la Fondazione Ambrosetti di Palazzolo sull’Oglio (fino al 25 febbraio), ha raccolto sotto il titolo di Calma apparente un terzetto efficace. C’è lo statunitense Steve Budington, che vale proprio a far risuonare l’allarme di cui si diceva, gli stranieri sono pronti, assai più dei nostri, a mescolare, a ibridare. Nelle sue tele policrome compaiono lacerti di icone figurative accostati a motivi floreali, a vivide chiazze, in un cocktail stimolante, effervescente. Carla Mattii apre risolutamente la porta che immette nel panorama gremito delle biotecnologie, proponendoci embrioni, pianticelle, fiori e foglie fatti di una sostanza sfuggente ed enigmatica, cioé di un tessuto che si situa all’incrocio tra codici naturali e artificiali. Sicuramente dovremo inoltrarci sempre più_ in questi territori inconditi. Infine Lidia Sanvito ricorre al materiale verbale, ma triturandolo, ricavandone come una lanuggine, una peluria, cioé in lei la materia più fredda e cerebrale viene riproposta in versione quanto mai fisica.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …