Massimo Mucchetti: Per il Partito democratico una lezione americana sulle imprese editoriali

12 Febbraio 2007
Lo Stato versa 450 milioni di euro l’anno alle imprese editoriali sotto forma di contributi diretti e sconti sulle tariffe postali. Del resto, in tutta Europa la stampa riceve sovvenzioni pubbliche. E pure la tv è ‟aiutata”, se è vero che paga poco o niente per utilizzare quelle stesse frequenze che alla telefonia mobile costano tanto. Forte della sua storica posizione di benefattore, palazzo Chigi annuncia la riforma dell’editoria. E intanto, tra gli addetti ai lavori, dirama un questionario nel quale prospetta lo statuto d’impresa per garantire il bilanciamento dei poteri e chiede trasparenza sulle proprietà e sulle fonti di finanziamento. Un questionario non è una legge; e tuttavia questo fa sorgere il dubbio che una coalizione costringa il governo a formulare ipotesi radicali per non affrontare le difficoltà reali. Partiamo dall’esperienza. Da oltre mezzo secolo in Germania si pratica il bilanciamento dei poteri, ma la cogestione non è consentita nel settore dei media: si vuol evitare che l’indipendenza delle direzioni, scelte per lo più da editori puri, possa essere condizionata dai compromessi tra capitale e lavoro. Con lo statuto d’impresa nei giornali, vogliamo essere più tedeschi dei tedeschi nell’unico settore dove i tedeschi rinunciano? E perché? La risposta si trova nella bozza del manifesto del costituendo Partito democratico laddove si legge: ‟Vogliamo liberare il giornalismo della carta stampata da un assetto proprietario che ne condiziona gli indirizzi di impresa estranei all’attività editoriale”. Verrebbe da chiedere: e la televisione, la radio e le altre piattaforme verso le quali si stanno indirizzando le fabbriche di notizie? Forse sarebbe meglio individuare con maggior precisione la difficoltà dell’oggi e i buoni esempi per il domani senza trascurare gli effetti collaterali. La difficoltà vera del settore dei media in Italia non è data da mancanza di trasparenza. Già oggi si sa abbastanza. E’quello che si sa che non convince. Stiamo parlando del conflitto di interessi tra le imprese e i loro soci principali che si crea ogni volta questi abbiano interessi prevalenti diversi dall’attività editoriale. E’un conflitto che coinvolge le persone giuridiche e, talvolta, le persone fisiche che le rappresentano nei consigli di amministrazione. Ne è segnata l’economia, ma anche la politica. I giornali, certo; ma anche, e in misura clamorosamente maggiore, Mediaset e Rai. Rivendicando il diritto all’ingenuità, Lorenzo Pelliccioli, amministratore delegato di De Agostini, accetta il valore metaeconomico dell’industria dell’informazione e suggerisce, se nel Paese si creasse un adeguato consenso, di tagliare il nodo gordiano con la spada della legge, ma poi non vorrebbe sentire più storie nella gestione dell’impresa editoriale pura o depurata. Una finestra sul futuro auspicabile dal Pd viene aperta negli Usa, dove i quotidiani sono stati scoperti dai fondi di private equity, che possono comprarli con largo ricorso al debito, sicuri di rivenderli dopo 3-5 anni, avendo almeno in parte rimborsato le banche con la cassa generata all’edicola e accresciuta tagliando le spese, a cominciare da quella per il personale. Questi fondi sono capitalisti impersonali, non sospettabili di rapporti incestuosi con i poteri economici e politici. Sono, con le public company, i nuovi editori puri, che si pongono oltre il capitalismo familiare. Ma è pronto il Pd ad accettare la loro dura legge? D’altra parte, prima di dare lezioni, il Pd potrebbe dare il buon esempio sciogliendo i conflitti della Rai che riguardano non solo la scelta delle persone, troppo influenzata dalla politica, ma anche e soprattutto la compartecipazione al duopolio nel settore della pubblicità a fianco di Mediaset.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …