Giorgio Bocca: Pena di morte. Quell'ultima volta nell'Italia '47

06 Marzo 2007
Dieci persone assassinate in una cascina di Villarbasse da quattro banditi siciliani. Ne danno notizia ‟La Nuova Gazzetta del Popolo” e ‟La Nuova Stampa”, il 30 novembre del 1945. Due cronisti, uno per giornale, sono stati accompagnati in auto sul posto dai carabinieri, nessun fotografo, resoconti stringati, freddi: i giornali non hanno spazio, i lettori sono stanchi di lutti, di orrori, di sangue, qui in Val Sangone sono avvenuti gli eccidi della X Mas del principe Valerio Borghese, il principe nero. Villarbasse è uno di quei villaggi della campagna torinese che sono immersi nella storia, ma ancora fuori dalla modernità. Rivoli con il suo castello è a cinque chilometri e in cinque chilometri si sale alla Sagra di San Michele, l’abbazia dei Longobardi dalle mura alte, e ai precipizi che non riuscirono a fermare Carlo Magno. Dentro la storia e dentro le leggende, che fanno da sfondo come le nebbioline delle colline di Giaveno che diedero i natali al corridore ciclista Martano. Ma sì, scriviamolo: perché le guerre si dimenticano, ma le memorie del Giro d’Italia restano. E resta la bagna caoda, la salsa di acciughe olio e aglio che continua a cuocere nei fornelletti per condire, ardente, le verdure freschissime. La bagna caoda è presente in tutte le fasi della strage di Villarbasse. Sul tavolo dell’osteria torinese di via Cibrario, dove i siciliani progettano il delitto, arrivati al Nord con la guerra, uniti dal mercato nero. E c’è la bagna caoda la sera dell’eccidio alla cascina Simonetto, dove il proprietario, l’avvocato Massimo Gianoli, ha riunito una bella tavolata con il fattore Antonio Ferrero, sua moglie, il genero Renato Morra, le domestiche Teresa Delfino, Rosa Martinoli e Rosina Maffiotto, più un bimbo di due anni e il nuovo lavorante Marcellino Gastaldi, venuto su per festeggiare l’assunzione. I banditi fanno irruzione verso le otto di sera. Sono i tre che hanno progettato il delitto, Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti; e poi c’è Francesco Saporito detto Lala, che ha lavorato per alcuni mesi nella cascina. Si sono mascherati con dei tovaglioli, sono armati di due pistole. L’operazione è preordinata, a catena. Puleo scende nella cantina, si piazza sull’orlo della cisterna con un randello grande e nodoso, gli portano le vittime una ad una. Puleo è un gigante, lascia che la vittima si avvicini alla cisterna e l’accoppa con un solo colpo micidiale di randello: si salverà solo il bambino, abbandonato in una stanza. Saranno uccisi anche i mariti di due delle domestiche, saliti alla cascina per cercare le mogli. Quando tutti gli amici dell’avvocato sono morti, i siciliani risalgono in casa per raccogliere il bottino: duecentomila lire, quattro salami, tre paia di calze, dieci fazzoletti. Delitti così, senza senso, senza pietà, sono frequenti in quel dopoguerra: una donna di Correggio, la Cianciulli, uccide le sue vecchie amiche e poi le saponifica tenendo i pezzi in un ripostiglio della cucina; figlio e marito non se ne accorgono. La Rina Fort ha ammazzato con una sbarra i figli di un suo amante che l’ha abbandonata. E la politica è spesso un alibi per continuare ad uccidere. Noi, che raccontiamo sui giornali ciò che accade, viviamo ubriachi di gioventù fra i delitti e le macerie dei bombardamenti, nelle tane urbane lasciate libere dagli sconfitti, noi giornalisti della Gazzetta, di GL e dell’Unità approdati in casa Protani, il questore repubblichino Protani, fucilato al "rondo d’la forca" dove prima impiccavano i ladri, e i buoni torinesi venivano a godersi lo spettacolo. Gli assassini di Villarbasse stanno con il loro misero bottino nello sperduto borgo piemontese e non sanno che fare, che cosa attendere, ma i dieci che stanno nella cisterna non li trova nessuno e son già passati dieci giorni. Solo Saporito, che è un bandito vero di professione, capisce che bisogna fuggire, prende il primo treno per Palermo, torna a Mezzojuso, il paese dove sono nati e cresciuti tutti e quattro, a farsi uccidere dalla Mafia: non per Villarbasse, ma per altri suoi assassinii o sgarbi. Sono trascorsi, dicevo, dieci giorni e sulla collina di Villarbasse nulla si muove. Porte finestre della cascina sono chiuse. I cadaveri delle dieci vittime stanno nella cisterna, i carabinieri sono passati un pomeriggio e i siciliani gli hanno detto che l’avvocato è partito, non sanno per dove. Eppure le tracce del delitto sono numerose, visibili: un contadino ha trovato nel prato un cappello macchiato di sangue, poi un vicino ha notato altre macchie di sangue nella cantina e una giacca sul cui bavero è rimasto appuntato un biglietto con scritta la parola Caltanissetta, che vuol dire? Il capo partigiano Fasola setaccia la zona con i suoi amici e, finalmente, si ricorda della cantina. L’ingresso è coperto da uno strato di foglie, le rastrellano, entrano e arrivano alla cisterna. Fasola prende una pertica e cerca nella cisterna, i cadaveri sono al fondo uno accanto all’altro. Questa volta i carabinieri possono fare il loro mestiere, ricercano e arrestano i siciliani, pronti alla confessione. Sono degli assassini, ma non si direbbe che sappiano quello che hanno fatto. Un giorno il francescano Ruggero Cipolla, che assiste i prigionieri alle Nuove di Torino, entra nella cella di Puleo e lo trova steso a terra sotto un lenzuolo sopra il quale ne ha appeso un altro come un catafalco. E dice al monaco: ‟Ho deciso di piangere la mia morte, tanto nessuno lo farà per me”. Quando arriva la notizia che la Cassazione ha respinto la domanda di mutare la sentenza di morte, ululano come lupi per tutta la notte. Ho una memoria incerta e nebbiosa di quella tetra fucilazione del 4 marzo del 1947, l’ultima condanna a morte eseguita in Italia. Un maresciallo dei carabinieri mi porta al poligono delle basse di Stura dove, nei tempi felici dei Savoia, c’era una delle riserve di caccia più vicine alla reggia. I lugubri preparativi sembrano ultimati: il plotone di esecuzione di trentasei uomini è schierato sul pendio che sta di fronte al muro dei condannati. C’è il frate che va da una sedia all’altra, cui i condannati sono legati, e mormora parole consolatrici che loro non ascoltano rannicchiati come orsi dietro il legno delle sedie, l’ultima illusoria protezione. Un signore in abito scuro, il questore suppongo, fa dei segni perché si affretti l’esecuzione e finisca questa maledetta grana. I soldati del plotone sono nervosi, a uno cade il fucile di mano: allora accorre l’ufficiale comandante con la sciarpa azzurra. Parte la scarica che, nel vuoto della campagna, è appena un crepitio, tanto che neanche i passeri si spaventano. Due dei condannati si afflosciano sulle sedie, Puleo non so come, torcendosi è riuscito a sollevarsi e a gridare qualcosa. Ma cosa? Un collega ha preso appunti. ‟Che cosa ha gridato?”. ‟Viva la Sicilia indipendente e libera”. Passano alcuni anni e mi telefona da Torino, dalla Fiat Mirafiori, un siciliano: ‟Sono del comitato Sicilia libera, le chiediamo di smentire i suoi scritti su Giovanni Puleo e i compagni uccisi nel complotto anti-siciliano di Villarbasse”. ‟Va bene - dico -, mandatemi del materiale”. Non si sono più fatti vivi.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …