Paolo Rumiz: Terzani, la casa nomade

16 Marzo 2007
Chissà dove s’è nascosto Tiziano. Forse nella pendola Hoken accanto al pianoforte con lo spartito di Schubert, o dentro la gabbia di un grillo portato trent’anni fa dall’Oriente. Può essere nella statua di Ganesh, il dio-elefante indiano che dormicchia vicino al lettone cinese con una collana di fiori al collo, oppure nella pancia di un cobra in bronzo acciambellato accanto al fuoco. Se poi ascolti gli scricchiolii e gli spifferi della casa, lui imbroglierà ancor più le carte. Ti befferà chiamandoti dall’armadio degli incensi tibetani, poi dal buco del camino col ronzio di un calabrone, poi dagli scaffali dei libri giapponesi, oltre la statuetta-guardiana di San Rocco in abito spagnolo delle Filippine. è facile perdersi nell’officina Terzani, la casa nomade che, di trasloco in trasloco, ha seguito l’uomo e la sua famiglia nei più straordinari paesi dell’Asia fin qui, al capolinea di Firenze-Bellosguardo. Anche Angela, la compagna che ha diviso con lui una vita e ci guida leggera di stanza in stanza, a volte ci si perde. Anche Folco, il figlio che ha raccolto dal vecchio le ultime parole sulla vita e la morte, sa che probabilmente è inutile cercare. Forse l’uomo dalla bianca tunica non sta da nessuna parte lì dentro, nemmeno nella montagna di articoli dattiloscritti, lettere e appunti a mano - quarant’anni di storia - ancora stipati in scatoloni dalle esotiche stampigliature. Sì perché, dopo aver accumulato per anni, alla fine lui ha gabbato il mondo andandosene leggero, in una stanzetta vuota sugli Appennini, a guardare il tramonto con accanto una statuina senza valore di Milarepa, un tappetino e due bastoncini di incenso. S’è liberato di tutto, ha scaricato le zavorre per far volare la mongolfiera. Ai vivi ha lasciato invece uno zoo sterminato di draghi di terracotta, gru, coccodrilli e mandrie intere di elefanti. La casa di un mago, o forse di un alchimista che scompare col suo segreto, lasciando a noi l’enigma di tanti oggetti con poche istruzioni per l’uso: misture di erbe e profumi, indovinelli su carta di riso, lumini e vecchi orologi. Oggetti nomadi, pronti a emigrare ancora, in cerca di nuovi padroni, in un viaggio che non finisce mai. Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokyo, Bangkok, Nuova Delhi. Comincia una traversata nel tempo, nella vita di uno scrittore ancor più amato da morto che da vivo. Folco s’infila nell’angolo degli incensi, cerca briciole di memoria, tira fuori da sotto il letto l’olio e il petrolio bianco necessari a fare la giusta mistura col profumo. Accanto, i gong, le candele, i fiori. ‟Lui teneva sempre in funzione tutto questo, ha insegnato anche a me come fare, sapeva che gli oggetti vivono solo se attorno ci crei un’atmosfera. Ora anch’io lo so: quando si svegliano sono straordinari, ma basta trascurarli pochi giorni e ripiombano nel letargo. Richiedono una dedizione tale che devi scegliere: vivere tu o far vivere loro”. ‟Il babbo era infaticabile, entusiasta, tornava da ogni viaggio carico di cose. Traversava le frontiere più pericolose con terrecotte o tappeti sulle spalle, per portarli a casa. Ma non era affatto un collezionista, lo affascinava la storia degli oggetti, quello che ci stava dietro. La contrattazione necessaria a comprarli, le storie, gli incontri casuali che la scoperta e l’acquisto comportavano: questo era il suo modo di conoscere i luoghi”. Accarezza un grosso elefante vietnamita e il suo gemello, immobili nel salotto. ‟Ce li portò a casa dicendo che aveva comprato due elefanti vivi, ma il governo aveva detto di no, li aveva parcheggiati allo zoo e gli aveva dato in cambio quelli in terracotta. Così il babbo ci portava allo zoo, ci mostrava la coppia di pachidermi veri e diceva: quando sarete grandi, loro saranno vostri. In questa casa è tutto così, dietro a ogni oggetto c’è una favola”. L’altarino degli antenati, uno stipetto cinese zeppo di statuine e foto di famiglia. Accanto, un Budda con la collanina d’oro che ha accompagnato Tiziano per tutta la vita, il lettone-armadio di Macao, grande come mezza stanza, comprato con cinquemila dollari vinti al casinò. ‟Sono circondato di oggetti dalla nascita - continua Folco - e forse per questo oggi non ne voglio. Di mio non possiedo nulla: quattro magliette, un’amaca, una coperta e un sasso che porto sempre con me. Non ho casa, dormo in casa di amici, vivo tra l’India, l’Italia e Los Angeles. Ma chissà - sorride con gli occhi furbi da brigante - forse posso permettermi un lusso simile solo perché ho alle spalle tutto questo”. La stanza si riempie di luce mandarino, oltre la finestra e gli ulivi c’è un gran tramonto verso i colli della Lucchesia. Ad altezza davanzale, incastrato tra le due pareti laterali, un soppalco di quattro metri per tre, con sopra un tappeto tibetano di Lasha e l’ultimo tavolo da lavoro, appena più grande di una scatola da scarpe, su misura per un uomo seduto in posizione yoga. è il tavolo de Un altro giro di giostra, dove s’è giocata la riscoperta del mondo attraverso la malattia terminale. Un’esplorazione estrema, avvenuta tutta dentro una costellazione di oggetti posizionati in modo da rappresentare un ordine mentale. L’armadietto con le scorte di tè di ogni tipo, le teiere, il fornello, i libri di Gandhi e Krishnamurti, il cuscino, la finestra sul mondo. Tutto è perfettamente visibile in quell’angolo. La geometria mentale dell’uomo, lo straordinario viaggio immobile verso una frontiera immateriale, la ricerca dell’essenza, l’affrancamento dai bisogni, il lavoro di scavo interiore e di eliminazione del superfluo. E poi la semplificazione portata all’ultima essenza, la riduzione dello spazio a un punto solo, quello in cui morire. Il capolinea della stanzetta himalaiana di Binsar, sotto i ghiacciai del Nanda Devi. E soprattutto Orsigna, il fondovalle tosco-emiliano con i grandi alberi parlanti, le scarpate e il vento di quota, il luogo del lungo dialogo sulla vita con la moglie e i figli, la rampa di lancio verso l’Altrove. Allora t’accorgi d’aver giocato a rimpiattino con un’ombra imprendibile. La stanza di un guru? ‟Ah, non c’è parola più sbagliata per Tiziano”, sorride Angela, dopo il gran pontificare dei critici sul fenomeno di massa Terzani. ‟Lui non cercava seguaci. Era solo uno che ha vissuto e ha parlato alla gente di ciò che conta nella vita”. Folco s’arrabbia: ‟Il mio babbo non aveva nessuna ambizione di dire la parola definitiva, figurarsi. Semplicemente ha smesso di cercare risposte nei santoni e nei maestri e ha cominciato a cercare in se stesso. Io gli ho detto: babbo, che hai in testa? Lui me ne ha parlato schiettamente, tutto qui. Non immaginava di scoperchiare un simile pentolone. Non sospettava quanto enorme fosse, nella società di oggi, il vuoto di pensiero sulle cose che contano”. La camera di Angela, il letto circondato di scatoloni e valigie piene di articoli, lettere e diari da archiviare. Sembra che lui se ne sia appena andato. ‟A volte non so come andare a dormire, devo scavalcare montagne di cose. Ci sono momenti che vorrei mollare, il lavoro di riordino è immenso, ma quando leggo quei dattiloscritti mi dico che ne vale la pena”. Estrae una lettera al direttore de l’Espresso dalla Cambogia con la scritta ‟Pass Urgently”, un articolo su carta velina da Saigon, crivellato di correzioni a pennarello nero. Poi pezzi in inglese per lo Spiegel dalla Cina, dove fu uno dei pochi europei negli anni del disgelo. ‟Mi stupisco ogni volta che in tutto questo non ci sia un grammo di muffa. C’è dentro la forza della vita prima ancora che della storia. Sembra tutto successo ieri”. Ma ecco, oltre i draghi cinesi, la parete piena di libri indiani e l’armadio con le gabbiette dei grilli; ecco, passata una porta, la scrivania di Hans-Joachim Staude, il padre pittore di Angela, nella stanza che fa da capolinea al labirinto. Lei racconta: ‟Questo mobile ha un cassetto segreto dove mio padre teneva il denaro, e quando il denaro finì, nel 1948, un anno durissimo, lui venne a dirci che il cassetto era vuoto e bisognava darsi da fare. Cominciò quello che rimase per tutti noi il tempo del cassetto vuoto, un tempo straordinario, perché per campare dovemmo affittare delle stanze, e ci venne in casa gente straordinaria, attirata a Firenze dalla bellezza, non dallo shopping. Tiziano mi conobbe allora, nel tempo del cassetto vuoto. Fu rapito da quella casa allegra, povera e piena di storie da raccontare”. C’era il dantista Hans Gmelin, i pianisti von Zastrow e Zirovich, lo storico fiorentino Nikolaj Rubinstein in partenza per la Grecia. I violoncellisti Gaspar Casadò e il suo allievo di Ceylon Rohan de Saram, con la madre chiusa in uno stupendo sari. ‟Quanta arguzia nelle nostre cene! Quanto imparavo! Non avevamo bisogno di viaggiare, avevamo il mondo in casa! Tiziano era affascinato da questi personaggi che avevano avuto il coraggio di osare, mettersi in discussione I suoi orizzonti si aprirono ancora di più, tutto gli apparve possibile dopo gli anni delle ristrettezze lui, povero di nascita, imparò l’ottimismo in quel mio mondo privo di convenzioni borghesi, dove mio padre parlava dell’infanzia ad Haiti e mia madre raccontava di favolosi viaggi nella Cina pre-rivoluzionaria”. La Cina è lì, due pareti piene di libri, con lo scaffale più alto sovrastato da arcigne statue scaramantiche di Macao. ‟La Cina è il luogo dove siamo stati più felici, io scrivevo i miei diari, lui i suoi articoli, il maoismo stava finendo, eravamo tra i pochissimi testimoni di un’epoca di cui trovavamo ancora le tracce tra cumuli di macerie. In quei milioni di uomini pallidi, spaventati, vestiti tutti eguali, lì tra montagne immense di cavoli e di farina grigia, cercavamo la luce di storie individuali nei lineamenti. Non dimenticherò mai un pezzente chino su un manoscritto antichissimo della Città Proibita. Era un eminente studioso che era stato spedito a fare i lavori più umili durante la rivoluzione culturale. Tutto era eccitante e un po’borderline, pericoloso quel tanto che bastava e difatti Tiziano fu espulso”. Angela racconta: ‟In Cina era stato spazzato via un mondo straordinario, una sterminata memoria dell’umanità per questo lui rovistava ovunque, dalle case ai robivecchi, i segni di quel tempo estinto per strapparli all’oblio. Ma appena quegli oggetti diventavano antiquariato, non gli interessavano più. Da allora non ho mai più pensato che una rivoluzione potesse essere una cosa buona e dire che una volta i contadini cinesi non buttavano mai via la carta scritta, mai, tanta era la reverenza per la cultura L’agghiacciante pragmatismo della Cina di oggi, la Cina che ci inquieta, è il risultato della distruzione di allora, unita ai disastri del capitalismo”. La finestra del salotto verso il giardino. Sul davanzale, un cuscino cinese a forma di gatto, un ananas cambogiano in argento, un coccodrillo indiano in terracotta, un vaso di rame dell’Himalaia, una statuetta colorata di Lu Xun, scrittore cinese identico a Tiziano, seduto a mani conserte, con la stessa tunica bianca. Accanto, un libro di Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa dalla mafia russa che a maggio avrà il premio Terzani alla memoria. Verso il vetro un ragno tesse la sua tela, sembra misurare il tempo in sincronia con la pendola. Folco, nella stanza accanto, rovista in un armadio, poi sbuca con un sorriso e delle scatolette in mano. ‟Ecco, vedi? Ho ritrovato il suo incenso preferito! Erano mesi che lo cercavo inutilmente in Tibet e nell’Himalaia, e invece era tutto qui! Bastava guardare in una porticina Ci sono bastoncini per due anni Guarda! Il suo tappetino dello yoga! I rotoli cinesi! Quanta roba mai aperta”. Usciamo sulla strada, Folco guarda le stelle d’inverno. ‟Ora ci tolgono anche queste piazzeranno lampioni moderni nelle stradine dei colli, i lavori sono già in corso. è il nuovo che avanza Colpo su colpo l’Italia sta perdendo il suo mistero”. Nel buio, per un attimo, la voce di Folco sembra quella del Grande Vecchio, solo davanti alle costellazioni dell’Himalaia.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …