Massimo Mucchetti : Vendita Telecom. Le scelte di Bankitalia e il ruolo della politica

10 Aprile 2007
La politica ha le sue responsabilità nel caso Telecom Italia. Ma gettare la croce sulla privatizzazione del 1997 e su Romano Prodi, anche allora capo del governo, senza entrare nel merito serve davvero a poco. La madre di tutte le privatizzazioni, meglio non dimenticarlo, è una conseguenza dell’accordo Andreatta-Van Miert, la cui osservanza era decisiva per l’ingresso dell’Italia nell’euro. Se non si contesta quell’intesa, e nessuno lo fa, sul resto bisogna intendersi. Anzitutto, ricordiamo gli uomini. Il collocamento in Borsa del 44% di Telecom di proprietà del Tesoro venne organizzato dalla direzione generale del ministero, guidata dall’attuale governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, e dal ministro Carlo Azeglio Ciampi. Non mancò certo l’imprimatur di Palazzo Chigi, ma le modalità vennero scelte in Via XX Settembre. Gli eccessi di sintesi non fanno chiarezza. E ora i fatti. Ciampi e Draghi si prefiggevano due obiettivi: il massimo incasso dalla privatizzazione; la stabilità societaria per almeno tre anni così da favorire lo sviluppo dell’impresa nel quadro della liberalizzazione incipiente. Il primo obiettivo fu raggiunto. Chi ha dubbi paragoni quell’incasso alle precedenti offerte avanzate da Pirelli e da Mediobanca-Banca di Roma. Venne mancato, invece, il secondo obiettivo. Il governo si illuse di poterlo conseguire con clausole statutarie quali il limite del 3% al possesso azionario, che non potevano resistere a un’Opa, e con la formazione di un nucleo di soci stabili. Le banche d’affari consulenti del Tesoro, interessate solo alle commissioni, promisero un «nocciolo duro» del 15% e, alla fine, ne portarono uno del 7%. Anziché puntare sui dirigenti che avevano costruito Telecom - erano boiardi, ma la sapevano lunga -, il governo ritenne che la società privatizzata avesse bisogno di un «socio industriale», al quale lasciare le nomine, e lo individuò negli Agnelli, che nelle telecomunicazioni non credevano. Ma l’errore sommo fu quello di rendere contendibile un’impresa con un debito modesto e un autofinanziamento crescente. In un epoca di tassi in calo, Telecom diventava la preda perfetta per chi l’avesse voluta scalare con i soldi delle banche. Queste, infatti, sarebbero state poi rimborsate dallo scalatore con il cash flow della società conquistata. Si poteva fare diversamente? Forse sì. Nel 1997, il Tesoro avrebbe potuto autorizzare l’acquisizione di Vodafone da parte di Tim, prima della privatizzazione. Il «nocciolino duro» avrebbe potuto guidare Telecom ad acquisizioni importanti così da renderla un boccone indigesto per gli aspiranti raider. Appena privatizzata, Telecom era una public company, una potenziale cacciatrice senza il freno di un azionista di riferimento timoroso di diluirsi con le fusioni o gli aumenti di capitale, ma le public company si conservano se sanno crescere e tenere alto il titolo, altrimenti diventano prede. Il passaggio di proprietà del 1999, dunque, era scritto nei libri della Telecom. Così come la possibile cessione agli americani lo è nei conti dell’attuale socio di riferimento, la Pirelli. Otto anni fa Mario Draghi chiese al premier Massimo D’Alema una lettera per non far partecipare il Tesoro all’assemblea di Telecom che doveva approvare le difese contro l’Opa di Olivetti. L’allora direttore generale temeva, a ragione, le conseguenze dell’Opa, buona al momento per il mercato, ma dubbia in prospettiva a causa delle scatole cinesi che stavano sopra Olivetti (e che Tronchetti ha sviluppato) e ancor più a causa dei debiti finanziari che con l’Opa sarebbero arrivati (e con Tronchetti aumentati). Ci si chiede come voterà e che cosa dirà la Banca d’Italia, con il suo 1,7% di Telecom, all’assemblea del 16 aprile. Carlos Slim è meglio di Roberto Colaninno?

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …