Furio Colombo: Partito democratico. Il partito guida

23 Aprile 2007
Sarà il partito democratico americano il modello di cui va in cerca il nascente partito democratico italiano nel futuro invocato a Firenze e presentato a Cinecittà? Se dovessimo accettare il principio, spesso proposto dagli esperti, secondo cui i partiti sono il ritratto e lo specchio del sistema elettorale, dovremmo opporre un drammatico e risoluto no.
E infatti il peggior sistema elettorale ora disponibile in Italia (a cura della stessa gente e dello stesso governo che ha dato al Paese le leggi vergogna e le leggi ad personam di cui ha parlato tutta la stampa internazionale) ha dato come frutto il peggior Parlamento: nessun rapporto con i cittadini, candidature che sono nomine, e una premeditata mancanza di governabilità di una delle Camere.
Non so perché alcuni al congresso Ds hanno voluto dire a Silvio Berlusconi che ‟tutto è perdonato”, con quel che è costato a tanti italiani cominciare appena a risanare una parte del disastro finanziario causato dal suo governo. Resta il fatto che, tra i suoi danni - alcuni così gravi che governo e maggioranza non vi hanno potuto finora mettere mano, nonostante l’attesa diffidente e ansiosa dei cittadini - c’è ancora l’orrenda legge elettorale. Se resta, o se viene solo un poco corretta dal referendum volonteroso ma dagli effetti minimi, o se continuano ad accatastarsi, come in un museo in disordine, pezzi di altri sistemi elettorali lontani e sconnessi, per alimentare discussioni senza fine sul modello di Cogne, allora il sogno di due grandi partiti, destinati a contrapporsi e a reclamare la guida del Paese, pur in presenza (o con l’alleanza) di forze minori, rispettabili e rispettate, è destinato a restare sogno. Berlusconi, che con i sogni ci sa fare e che di frantumazione politica di una maggioranza ha fra le mani una bella esperienza, ha subito detto, con uno di quei bei sorrisi che scaldano il cuore, che al Partito democratico si iscriverebbe anche lui (al 95 per cento, ha detto; confidiamo in quel cinque per cento che non gli va bene). E che - in ogni caso - sta lavorando a un suo grande partito della destra. Auguri a Fini. Ma occupiamoci intanto di questo paesaggio. Un po’ vero e un po’ finto, un po’ speranza, un po’ verità per vedere che cosa ci aspetta.
Parlo del ‟migliore dei casi” seguendo il percorso della evocazione-promessa di un futuro meno minaccioso e tormentato dal presente italiano. Come se la legge elettorale, con il civile sistema maggioritario, le primarie e tutto fossero già il presente, come se l’augurio di Prodi ai due congressi e le promesse di Fassino da Firenze e di Rutelli dal set di Fellini, si fossero avverate mentre scriviamo.
***
Parlo per un momento di tutti e due i partiti americani, repubblicano e democratico, sia perché Berlusconi, nel suo momento concitato di ridente apparizione in mezzo ai Ds (dai quali aveva, in un recente passato, annunciato di aspettarsi ‟miseria, dolore e morte”) ha detto che ‟il grande partito” lo fa anche lui; sia perché c’è bisogno, come molte altre democrazie in crisi organizzativa in Europa, di sapere come ritrovano casa e che cosa scrivono di sé, sulla porta, le destre e le sinistre del mondo. E sia perché è importante sapere se vorranno trarre ispirazione dai modelli americani.
Cominciamo dalla destra. Sono ovviamente e notoriamente tendenzioso nel giudizio che sto per proporre, ma ritengo che il percorso peggiore e quasi impraticabile riguardi proprio la destra. Di qua, sul versante di Berlusconi, si tratta di un aggregato d’affari antico, paternalistico, che fa capo a un mega padrone che si affida a eccellenti modelli di comunicazione e nient’altro. Infatti non ammette e non tollera neppure la libera concorrenza fra barbieri e non ha alcuna idea delle regole che guidano, nel bene e nel male il capitalismo, se il capitalismo non sono affari privati del gruppo Berlusconi o viaggi d’affari a San Pietroburgo con Putin. E infatti la pretesa modernità della destra italiana temo molto che assomigli a un’Italia vecchia, tradizionale, abituata a distinguere fra la facciata lustra e il retro un po’ losco del palazzo sul quale è ragionevole e umano chiudere un occhio.
Di là dall’oceano, George W. Bush ha agganciato tutto il suo partito della destra tradizionale americana a quello che lui definisce ‟governo di guerra”.
Berlusconi conta sulla memoria corta e finge di non essere mai stato parte della tragica avventura in Iraq e di avervi lasciato trenta giovani soldati italiani morti senza un perché. Ma George W. Bush è ostinato, continua a dire di sé ‟sono un presidente di guerra”. E mentre la tragedia in Iraq - che non è un possente esercito contro un possente esercito ma la dissoluzione di un Paese - aumenta, lui aumenta i soldati, dunque i morti americani, i morti iracheni e lo strano destino del suo partito, che non riesce, con Bush, a districarsi dalla guerra come presente, la guerra come futuro e l’economia - che si presenta soprattutto con le imprese che fanno capo al vicepresidente Cheney - come economia di guerra. Assicuro i lettori che sto parafrasando economisti americani, da Paul Krugman al premio Nobel Joseph Stiglitz, senza aggiungere nulla di mio.
***
Per avere un’immagine del partito democratico, ovvero della sinistra americana oggi (immaginando che possa diventare un modello o almeno un riferimento per il Partito democratico italiano) prendiamo un evento esemplare appena accaduto.
Il giorno 18 aprile la Corte suprema degli Stati Uniti (che adesso è di destra perché quasi tutti i giudici a vita che ne fanno parte sono stati nominati da Reagan, da Bush padre o da Bush figlio) ha posto fine a una lunga vicenda giudiziaria, dichiarando illegale il cosiddetto ‟aborto tardivo” anche se necessario per salvare la vita di una donna. Come si vede la grande svolta del mondo in cui i conservatori tradizionalmente laici, del capitalismo e della ricchezza, diventano anche i custodi dei valori religiosi cari a masse di elettori che - altrimenti - non voterebbero a destra, continua e si espande.
I democratici? Come è noto essi sono la più vasta e diversificata aggregazione di culture, gruppi etnici, religioni, tradizionali e anche fasi diverse di immigrazione e generazioni di nuovi arrivati. li accomuna il legame fortissimo ai diritti civili dei cittadini, prima di tutto i diritti delle donne e dei diversi stili di vita di cui l’intero partito ha fatto bandiera. E infatti l’intera prima fila del Partito democratico, e tutti i suoi candidati presidenziali (dunque Hillary Clinton e Barak Obama) hanno denunciato e condannato la sentenza della Corte suprema. Ma non lo hanno fatto in quanto la Corte repubblicana ha fatto un favore al Partito repubblicano, così male assortito al momento, quanto a candidati alla presidenza. Hanno detto: «È un attacco alle libertà civili e un rovesciamento di 40 anni di giurisprudenza americana» (Hillary Clinton). «È una decisione che abolisce tutte le salvaguardie per la salute delle donne incinte» (Barak Obama). Come si vede, non hanno ceduto. Hanno detto no, senza neppure sognarsi di riaprire il dibattito.
S’intende che il Partito democratico non vuole uno scontro sull’aborto, come stanno disperatamente tentando di fare i repubblicani per cambiare il gioco dal terreno politico (sul quale stanno perdendo) a quello religioso.
Ma, vista la decisione non nobile di agitare l’immagine del piccolo feto sugli spalti della campagna elettorale, il Partito democratico reagisce compatto sapendo benissimo che lo scontro interno incrinerebbe subito il forte vantaggio elettorale che li divide dalla destra di Bush.
E qui forse vale la pena di tentare un identikit dei democratici americani che sembrano destinati ad essere il ‟partito-guida” (ma solo nel senso di partito modello) dei democratici italiani. O almeno, speriamo che lo siano.
Radici? Tutte le radici. Se i democratici ne dichiarassero una perderebbero le altre. Infatti in quel partito ci sono cattolici, protestanti di tante Chiese diverse, ebrei, islamici, fedeli di varie religioni asiatiche, non credenti.
Riformismo? Con Roosevelt i democratici hanno preferito dire ‟New deal”, i kennediani ‟nuova frontiera”, Bill Clinton ‟nuova protezione della salute”. Che vuol dire: avere un progetto economico che indica un traguardo più avanzato dello stato delle cose, uno spostarsi in avanti che, per i democratici, deve avere questa caratteristica: coinvolgere tutti. E anche: per quanto si lavori, in apparenza, su un tema solo (come la riforma sanitaria di Clinton, purtroppo fallita perché definita ‟comunista” e combattuta con immense risorse economiche, dalla destra) quel tema, se risolto, cambia tutto.
Avversari o nemici dell’altro partito? Gli opponenti politici, in una normale democrazia, non sono mai nemici. Ma la linea di demarcazione è netta e costante, arriva fino alle istituzioni. Il presidente deve dichiarare ogni volta che intende avere a sua disposizione le televisioni, se parla al Paese per ragioni istituzionali o da capo di partito. Varie volte le televisioni americane hanno rifiutato a Reagan, una volta a Bush padre, le reti unificate, dopo avere letto la scaletta del discorso preannunciato, con la pubblica dichiarazione: «Spiacenti ma si tratta di un discorso partitico e non presidenziale. Se crede, lo trasmettiamo a pagamento».
Avrebbero i Democratici americani invitato Bush alla loro ‟Convention” o i Repubblicani invitato Obama o la Clinton? Non è mai avvenuto nella Storia americana. Gli Usa sono un Paese fondato su notizie e segnali chiari e nessuno apprezza la confusione di luoghi e di ruoli. Ognuno compare sul suo palcoscenico.
Giustizia? Niente esenta un presidente degli Stati Uniti dal normale potere giudiziario, salvo che il giudice decida di astenersi fino alla fine del mandato. Bill Clinton è stato investigato varie volte da un ‟Grand Jury” (una sorta di organo investigativo composto di magistrati e giuria popolare) e ha testimoniato, giurato di dire la verità, rischiato l’incriminazione come qualunque cittadino.
Conflitto di interessi? Non è ammesso, non è accettato, non è tollerato e deve essere risolto prima e non dopo l’assunzione di una carica. Si immagina che se l’autorità interviene dopo che un presidente è insediato, nessuna autorità avrà forza sufficiente.
***
Perché parlare di questi argomenti dal lato dei democratici come se questioni tipo la giustizia e il conflitto di interessi coinvolgessero una sola parte politica, quella repubblicana? Infatti non è così, normalmente. Ma da quando George W. Bush ha scelto di definirsi ‟presidente di guerra”, il suo partito ha smesso di garantire alcuni criteri sacri per tutti in nome dell’emergenza. Per esempio, il vice presidente Cheney si è preso, per la ricostruzione dell’Iraq, tutti gli appalti. Ora i democratici di Clinton e Obama puntano a ristabilire la normale legalità del Paese.
Che cosa farebbe il partito democratico americano se - come il nascente Pd italiano - dovesse decidere di aderire o no al Partito socialista europeo? Semplice. Al prossimo congresso ascolterebbero tutte le ragioni. Poi si vota. Poi si va tutti dove dice il voto. Passerà fino a noi questa semplice lezione di vita in comune, di tante anime e storie e radici diverse e libere? È importante saperlo, perché di qui, dal voto, passano anche le decisioni sul che fare tutti insieme di fronte alla grandi questioni morali. Sono tanti i cattolici fra i democratici americani, in certe aree sono la maggioranza. Ma non spaccano il partito ad ogni sentenza della loro Corte suprema o ad ogni prescrizione delle Chiese americane. Votano. E, di conseguenza, fanno, capiscono, si orientano e votano gli elettori.
Partito contenitore? Se il Partito democratico americano lo fosse, sarebbe una immensa burocrazia. Invece, salvo un piccolo ufficio a Washington e l’attivismo di deputati, senatori ed eletti locali (contee, municipi, città) tutto il lavoro politico è volontario. Un grande girotondo anima la vita pubblica americana (eccezionalmente anche le piazze) quando grandi scadenze si avvicinano. E persino le scuole, le case, gli appartamenti privati diventano luoghi di incontro e di dibattito. Se c’è una guida da seguire (o almeno a cui ispirarsi) è certo questa. Il Partito democratico è un vorace partito di contenuti, pronto a impossessarsi di ciò che tormenta, spaventa o sta a cuore ai cittadini. È un partito di sinistra perché raccoglie le indicazioni di orientamento e di percorso dal lato dei cittadini-elettori, non dalle prescrizioni del mercato. E, naturalmente, dal leader, che dura finché si fa capire e seguire.

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …