Massimo Mucchetti: Caso Telecom. Mercato, proprietà pubblica e l’arrivo di Telefonica

07 Maggio 2007
Il caso Telecom Italia ha suscitato malcontento negli economisti di matrice liberale, perché Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa avrebbero condizionato le mosse del venditore, Marco Tronchetti Provera, e sollecitato, in nome del patriottismo economico, le banche e le Generali a entrare in partita. Il premier e il ministro dell’Economia avrebbero perciò leso il diritto di proprietà e imposto un investimento improprio. E’una lettura convergente con quella, complottista, proposta da Tronchetti. Ma siamo sicuri che simili chiavi di interpretazione aiutino il pensiero liberale a capire questa vicenda? Se andiamo al nocciolo, il caso Pirelli-Telecom apre tre questioni: la legittimità di un uomo che ha sbagliato e che, di suo, ha investito pochissimo a decidere ancora, e da solo, il destino di un grande gruppo; l’apertura del mercato dei diritti di proprietà a soggetti che non giocano con le nostre regole; la realtà dei grandi investitori italiani rispetto agli obiettivi condivisi dal sistema. Il primo punto è politico, non giuridico. Tronchetti aveva il diritto di vendere, e nessun atto con valore giuridico gliel’ha impedito. Le telefonate e gli auspici dei politici possono sempre essere respinti come oggi fa, senza conseguenze, Alessandro Profumo e come fecero quasi tutti i capitalisti italiani nel 1997, quando rifiutarono di partecipare alla privatizzazione di Telecom Italia. Il problema è se Tronchetti avesse anche il diritto di non essere contestato. Data la modestia del rischio patrimoniale assunto rispetto al potere fino all’ultimo esercitato, Tronchetti non poteva non mettere nel conto le reazioni di altri portatori o rappresentanti di legittimi interessi: dalle banche ai soci, dal governo alle autorità, dai concorrenti ai dipendenti fino alle persone spiate dai servizi di sicurezza da lui scelti e sostenuti per anni. Dati i risultati, questi soggetti avevano e hanno il diritto di contestare, se lo credono e nelle forme consentite dalla legge, la sua autorevolezza, se non la sua autorità. La meritocrazia è un punto fermo del pensiero liberale. Ne esalta le potenzialità democratiche. E’sacrosanto invocare la meritocrazia nella pubblica amministrazione, fino al licenziamento dei fannulloni. Ma se questa tensione riformista s’infrange sulle piramidi societarie del capitalismo collusivo, dove mai nessuno risponde di quello che fa perché c’è sempre un altro equilibrio da proteggere o un favore da scambiare, allora il pensiero liberale rischia di diventare un pensiero debole: di scoprire un’intima difficoltà speculare a quella della socialdemocrazia moderna rispetto al conservatorismo sindacale. Accantonare questo problema in ossequio al diritto di proprietà, lungi dal rafforzare questo pilastro della libertà, lo indebolisce perché separa la proprietà dalla responsabilità. E poiché anche in economia il vuoto non esiste, la debolezza di certo capitalismo apre lo spazio alla moral suasion della politica e la chiama a una supplenza, peraltro fatalmente modesta nei suoi risultati patriottici, come mostra l’opzione su Telecom Italia che, alla fine, Telefonica si è con poca spesa aggiudicata. Punto secondo, l’apparizione di Carlos Slim sulla scena di Telecom Italia ci avverte che, con la globalizzazione, il mercato dei diritti di proprietà offre una chance anche a soggetti che giocano con regole assai diverse dalle nostre. Dieci anni fa, quando la cultura delle privatizzazioni e della libera circolazione dei capitali si sono affermate, gli Slim non esistevano. Il mercato occidentale aveva comuni radici democratiche nella distinzione tra Stato e religione, tra politica e affari, tra regolazione ed economia. Adesso tutto è cambiato, anche se i punti d’incontro tra domanda e offerta di capitali sono ancora Wall Street e la City. Gli oligarchi russi, sudamericani, centroamericani, arabi, cinesi accumulano profitti senza paragone perché possono sfruttare il lavoro, l’ambiente e i favori di governi amici e spesso corrotti. Per questo, teoricamente, sono già in grado di comprare mezza Europa. Ma siamo sicuri che, in questo caso, aurum non olet? Non è anche questa una forma di contraffazione? La Commissione europea ha emanato una direttiva sull’Opa, che consente di adottare misure difensive in base al principio della reciprocità delle regole. L’Italia non l’ha ancora recepita e così lascia le sue imprese in posizione di svantaggio nella convinzione che la legge nazionale, più aperturista, sia più avanzata. Ma avanzata verso dove? E qui veniamo al terzo punto: i soggetti capaci di investimenti molto grandi fuori al core business. Se si circoscrive il gioco ai soggetti perfetti nella logica anglosassone, ossia a imprenditori e fondi pensione, si scoprirà che l’Italia è disarmata di fronte ai casi Telecom, Eni, Enel, Finmeccanica. L’alternativa reale sarà tra proprietà pubblica e proprietà estera, perché gli imprenditori non hanno abbastanza soldi e i fondi pensione non esistono e non esisteranno a lungo. La possibile terza via passa attraverso l’impresa manageriale partecipata da banche, assicurazioni, fondazioni e fondi specializzati, tipo il F2i. Per le telecomunicazioni ogni paese europeo usa i suoi strumenti migliori. Il Regno Unito la sua irripetibile City. Francia, Germania e Svizzera lo Stato. La Spagna, le banche. Telefonica, si dice, è una public company. Ma si dimentica di aggiungere che il Banco di Bilbao e La Caixa vi detengono l’11,5% con un immobilizzo di capitale di 9,3 miliardi di euro. Che cos’è mai al confronto il miliardo investito da Mediobanca e Intesa Sanpaolo in Olimpia? A Madrid nessuno parla di Francisco Gonzalez e di Ricardo Fornesa Ribo come di «banchieri senza mandato» o li accusa di togliere credito alla clientela. In Italia lo si fa, quando la legge bancaria del 1993 autorizza le partecipazioni non finanziarie e Mediobanca e Intesa hanno ingenti capitali in eccesso. Certo, le banche andranno misurate sul rendimento delle loro operazioni. E l’esordio non è bello. Ma il caso Telecom ci dice che il problema scottante non è se Giovanni Bazoli, Gabriele Galateri e Antoine Bernheim abbiano dialogato con il governo: questo accade ovunque nel mondo. Il problema scottante dovrebbe essere perché, pur avendo forti riserve sui risultati di Pirelli, non abbiano trovato il modo di dettare per tempo un cambio della guardia e di arrivare così in Telecom a quella soluzione interamente italiana che, all’inizio, i più dicevano di volere.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …