Renato Barilli: Quegli splendidi involucri di Casorati

07 Maggio 2007
Il visitatore che in questi giorni si reca alla Loggetta lombardesca di Ravenna si trova nella felice situazione di ‟pagare uno e prendere due”, dato che con lo stesso biglietto il Museo romagnolo gli consente l’accesso a due mostre distinte. Di una di queste, dedicata al Baccarini, mi sono occupato domenica scorsa, ora vale la pena di parlare pure dell’altra, che traccia un agile ma esauriente profilo di Felice Casorati (a cura, oltre che del direttore Claudio Spadoni, di valenti specialiste come C. Gian Ferrari e E. Pontiggia, fino al 15 luglio). L’accostamento tra i due artisti sembrerebbe casuale, ma l’anno di nascita, che per il primo è il 1882 e per il secondo il 1883, dice pure qualcosa, significa quanto già segnalavo nella mia recensione precedente, che per entrambi non si può agitare lo spettro della congiuntura simbolista-Liberty, propria di protagonisti nati circa un ventennio prima. Meglio collocarli in un terreno fertile, anche se all’inizio necessariamente alquanto indefinito, che si può richiamare a un generico espressionismo nostrano. Naturalmente, se a congiungerli vale una data di nascita così prossima, il destino ha poi agito sui due in modi diametralmente opposti, in quanto il Baccarini moriva ‟bruciato verde” nel 1907, laddove per Casorati questa è la data in cui si registrano i suoi primi dipinti significativi. Inoltre l’artista sarebbe stato longevo, spegnendosi nel 1963, e riuscendo così a svolgere in pieno la sua fisionomia, perfino troppo, così da esercitare, sull’ambiente torinese in cui si era trasferito alla metà del secondo decennio, una dittatura divenuta alla fine alquanto soffocante. Insomma, da un lato abbiamo un enigma storico irrisolvibile, Baccarini poteva divenire un grande, o invece affondare in una palude di municipalismo, non lo sapremo mai, laddove dell’altro abbiamo un’immagine perfino troppo ferma e compiuta.
Ma c’è davvero qualcosa a congiungerli, in partenza. Si vedano i dipinti con cui inizia il percorso di Casorati, quando, tra il 1908 e l’11, i casi della vita lo fanno risiedere a Napoli, dove ci dà ritratti di donne anziane, accalcati in schiera numerosa, ma se li ritagliassimo in immagini singole, ne avremmo una cruda denuncia di fisionomie rugose, ghignanti, appesantite dagli anni, non molto distanti insomma dai ritratti in cui fino a poco tempo prima si era cimentato anche il Baccarini. E dunque, si tratta davvero di un espressionismo casalingo, Vero è che l’artista mostra già una calamitazione spontanea sui valori della superficie, soprattutto se questa è data da stoffe di abiti femminili percorsi da inevitabili motivi decorativi. Poi il suo curriculum lo vede traslocato a Nord, a Verona, e qui in effetti egli si accosta al modello di un ossessivo decorativismo di marca secessionista, secondo la lezione di Klimt. È allora il momento di attribuirgli una evidente propensione di specie Liberty? Sì e no, dato che l’artista, piuttosto che lasciarsi travolgere dal rigoglio degli arruffii ornamentali, preferisce distribuirli con ordine, ricavandone delle lucide mappe, quasi delle scacchiere, con tante caselle ben distinte su cui disporre delle pedine o dei gettoni, delineati in tutta purezza. Già attorno al ’15 egli si vale di un’immagine che poi sarà decisiva per il suo futuro, la forma ellittica di un uovo, che al momento plana su quelle griglie mantenendo un profilo schiacciato.
Ma intanto si avvicina la svolta del dopoguerra, quella che viene sancita dallo slogan del ‟richiamo all’ordine”, e che del resto proprio nel nostro Paese è stata altamente annunciata dalla nascita della Metafisica. Casorati, che frattanto ha preso stabile dimora a Torino, non resta certo insensibile a quell’imperativo stilistico che ribalta le tendenze fin lì seguite dall’avanguardia, ma non ha bisogno di mutare di molto la sua impostazione. In fondo, gli basterà pompare dell’aria, entro le sagome ben tracciate delle uova, e del resto la sua fantasia saprà rintracciare tanti altri temi affini, in cui cioè una pianta ellittica, o di cerchio schiacciato, prende a ruotare nello spazio, ad occuparlo con forti invasioni volumetriche, che tuttavia non celano mai di provenire da visioni ‟in pianta”. Insomma, siamo in presenza di un abilissimo balletto tra le due e le tre dimensioni, affidato a tazze, doghe di botti, armature metalliche, a tutto ciò che possa dimostrare di essere pieno di vuoto.
Beninteso a questa prova di espansione volumetrica non può certo sottrarsi l’icona privilegiata fra tutte, la figura umana, ed ecco allora quei capolavori assoluti che si intitolano Silvana Cenni, o Meriggio, o Concerto, dove i corpi, pur ostentando una superba volumetria, lo fanno con un’aria lunare, confermando di essere spoglie splendide, ma vuote all’interno. C’è da scommettere che se un visitatore maligno infliggesse loro una ferita, si udrebbe come un sibilo e si assisterebbe a un processo di sgonfiamento.
Questa non è solo una similitudine ardita, bensì un modo di accennare a quanto succede davvero nell’arte casoratiana dopo il ’30, quando egli avverte, come tutti, che la stagione dei valori plastici è ormai conclusa, l’arte contemporanea deve riprendere un cammino assai più prossimo ai valori di superficie e di tessuto. In tal caso gli splendidi involucri possono calarsi al suolo, e riprendere ad affidarsi alle cifre arabescate, ai motivi decorativi degli anni di partenza.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …