Guido Piccoli: Il paramilitare “pentito” Mancuso fa i nomi, trema mezza Colombia

20 Maggio 2007
Se la Colombia non fosse l'ultimo vassallo rimasto agli Stati uniti nel Cono Sud, Alvaro Uribe sarebbe già stato sfrattato da Palacio Nariño. Invece resiste aggrappato a fantasiosi sondaggi d'opinione che continuano ad attribuirgli una popolarità immaginaria. Nel frattempo la nave affonda e i topi non solo scappano ma si accusano vicendevolmente, facendo emergere una realtà di terrore e corruzione che solo i più accesi oppositori avevano intuito.
La ‟gola profonda” del momento è l'italo-colombiano Salvatore Mancuso, ospitato nel carcere-hotel di Itaguì, dopo aver trascorso più di un anno in un ameno centro turistico tra orge con reginette di bellezza e concerti di vallenato. Per non finire estradato negli Usa o in Italia come narcotrafficante, l'ex leader delle Autodefensas unidas de Colombia ha scelto di raccontare tutta, o quasi, la sua verità. Se fino ad un paio di mesi fa, nel corso delle confessioni previste dalla cosiddetta ‟Legge di giustizia e pace”, accusava soltanto personaggi defunti, adesso Mancuso fornisce elenchi dettagliati di complici e patrocinatori delle Auc. Vi appaiono non solo i principali oligarchi del paese, banchieri che hanno favorito il riciclaggio dei proventi del narcotraffico, società multinazionali (e non solo la Chiquita Brands), schiere di sindaci, governatori, deputati e alcuni generali, tra i quali il fanatico Rito Alejo del Rio e l'ex capo della polizia Rosso José Serrano, venerato come un eroe della lotta alla droga dalle autorità di parecchi paesi tra i quali l'Italia. Mancuso ha accusato due rampolli della famiglia Santos, proprietaria del quotidiano ‟El Tiempo”, di avere richiesto i suoi ‟servigi”: Francisco e Juan Manuel, rispettivamente vice-presidente e ministro della difesa dell'attuale governo. E ha tirato in ballo anche l'attuale ambasciatore colombiano a Roma, Sabas Pretelt de la Vega (già accusato nel dicembre scorso da due capi paras di aver loro promesso la non-estradizione negli Usa in cambio dell'appoggio elettorale ad Uribe).
Pur confermando in pieno la tesi dell'opposizione e delle organizzazioni umanitarie sul paramilitarismo come ‟politica dello stato” (per usare le sue parole), Mancuso ha evitato di assumersi la responsabilità diretta nella carneficina che ha disseminato il paese delle centinaia di fosse comuni che, scoperte in questo periodo, generano orrore tra la gente e un'ipocrita falsa sorpresa nei palazzi del potere. Ma soprattutto si è guardato bene dal coinvolgere il maggiore responsabile e ideologo di questa politica statale, cioè lo stesso presidente Alvaro Uribe. Sebbene tutte le trame dello scandalo portino a lui, il presidente barcolla come un pugile suonato ma non cade.
Temendo di essere scaricato (com'è capitato a tutti i criminali al servizio del potere, compreso Pablo Escobar), don Salvatore ha due obiettivi. Dichiarandosi un combattente al servizio del potere, spera di ottenere uno status politico che gli consenta di giustificare i seimila omicidi che gli sono attribuiti. Con le sue recenti accuse contribuisce inoltre ad erodere la distinzione tra un'oligarchia mafiosa (e quindi ‟cattiva”) da frenare e parzialmente castigare, ed un'oligarchia tradizionale ‟buona” in grado di far uscire il paese dall'attuale pantano, magari in accordo con la prossima amministrazione statunitense, presumibilmente democratica. Questa divaricazione, accentuandosi, segnerebbe la fine del suo socio Alvaro Uribe, incarnazione delle due oligarchie o meglio delle facce - una criminale, l'altra perbene - della stessa oligarchia. Confermando che nell'establishment colombiano nessuno è innocente (non solo oggi, ma da sempre), Mancuso e Uribe confidano in una salvezza collettiva di sicari e mandanti.
Mentre infuria il cannibalismo istituzionale, istigato anche dalla Cia (ne ha fatto le spese l'intero vertice della polizia, rimosso per avere intercettato illegalmente non solo i politici, ma persino gli intoccabili leader paramilitari), la violenza procede secondo il solito copione. Sono ripresi i massacri nelle campagne e continuano gli omicidi mirati, come quello di Francisco Puerta, leader della Comunità di Pace di San José di Apartadò: per lo più realizzati dai ‟nuovi paras” sotto il solito sguardo complice dei militari e dietro ordine dei vecchi capi teoricamente pensionati. Nel frattempo, le Farc infliggono duri colpi all'esercito e aspettano che nella selva si facciano vivi i commandos ai quali il presidente ha ordinato ancora una volta, venerdì, di catturare - costi quel che costi - qualche pezzo da novanta, magari lo stesso Manuel Marulanda Tirofijo, o di riscattare qualche sequestrato eccellente, magari la stessa Betancourt, ancora viva secondo un ostaggio appena fuggito (il neoministro degli esteri francese Kouchner ha prontamente ribattuto dicendosi ‟contrario a iniziative che possano mettere a repentaglio la vita degli ostaggi”). Una ‟mission impossible”, oltre che suicida e omicida, che può essere l'ultima cartuccia di Alvaro Uribe.

Guido Piccoli

Guido Piccoli, giornalista e sceneggiatore, ha vissuto a Bogotá gli anni più caldi della "guerra ai narcos". Sulla Colombia ha scritto la biografia di Escobar, Pablo e gli altri (Ega …