Furio Colombo: Partito e popolo

05 Giugno 2007
Il partito a cui si riferisce il titolo di questo articolo è il Partito democratico. Come tutti i lavori in corso crea una immensità di inconvenienti per coloro che eventualmente beneficeranno della nuova costruzione: non vedono, non sanno, non partecipano. E certo non li rappresentano alcune decine di persone per bene detti i ‟garanti” per il solo fatto di essere quadri di partito oppure nominati oppure cooptati senza che esistano indicazioni per la nomina e la cooptazione o istruzioni per l’uso (poteri e doveri). Le porte per ora sono chiuse, i percorsi sono al di là delle impalcature, le regole un atto di fede.
‟Popolo” è una parola grossa (ricordate quando Alberto Asor Rosa poteva usare questa parola nel titolo del suo libro Scrittori e popolo per intendere, i creatori e i frequentatori di idee?). Bene, io non mi illudo che un’immensa folla prema ai cancelli chiusi del Partito democratico che non è pronto. Ma certo c’è un’attesa, sempre meno tollerante e paziente, che le ultime elezioni non vinte hanno indicato in due diverse tabelle: quelli che ancora hanno votato centrosinistra, e quelli che, per il momento, non hanno votato. Ecco, questo è il popolo di cui sto parlando, gli uni e gli altri, coloro che tengono ancora stretto il filo della fiducia. E coloro, forse meno indifferenti e più appassionati, che hanno battuto il tremendo colpo di gong delle schede bianche e del non voto, nel disperato intento di farsi sentire di là dalle impalcature, dentro il cantiere da cui sono esclusi i ‟non addetti ai lavori”.
Dunque c’è un partito in corso di costruzione (evento arduo e difficile nella storia delle democrazie, con una tradizione simile a quella dei nuovi ristoranti: ne nascono cento, se ne afferma uno). E c’è, presumibilmente, un popolo in attesa. È fatto in parte di gente che sta già sgombrando le sedi, anche psicologiche, interiori, mentali, dei partiti che abitava prima. E in parte da persone che - pur non essendo militanti di un partito - sono rimaste ostinatamente legate ai grandi valori democratici portati in Italia dall’antifascismo e dalla Resistenza (legalità, scuola pubblica, legge uguale per tutti, lotta alla malavita in tutte le sue incarnazioni, diritti umani, diritti civili) che vorrebbero ritrovare, ma non sono sicuri dove.
C’è anche la separazione nitida e rispettosa tra Chiesa e Stato, in questo elenco di valori dei cittadini che non sono in casa né in piazza, ma non sanno ancora con sicurezza dove dirigersi. C’è anche la separazione tra giornalisti e notizie da una parte e potere dall’altra. Sanno con sicurezza dove non c’è, e anzi viene negata e irrisa, questa separazione. È la casa del conflitto di interessi. Ma molti stanno ancora cercando un nuovo indirizzo.
E c’è la separazione fra i legittimi interessi dell’impresa e il legittimo diritto di difendere il lavoro. In una economia brada il lavoro è affidato all’esito di un continuo scontro e vinca chi può fare più profitto o più danni. In una buona democrazia, e in un buon partito che voglia fare da sostegno e da trave a quella democrazia, ti dedichi alla difesa di chi lavora non perché vuoi la lotta di classe ma, al contrario, perché sai di essere in un mondo moderno ed efficiente in cui si lavora insieme alla pari, non gettando il lavoro tra le scorie di cui la cosiddetta modernità vuole liberarsi. E poi il mercato chiede confronto fra parti altrettanto forti. Se no che mercato è?
Sarà vero che ognuno deve vedersela col nuovo mondo da solo e da bravo, secondo il merito. Ma resta il fatto che all’adunata dei giovani imprenditori, che si celebra come sempre a Santa Margherita Ligure, tutti i partecipanti - a cominciare da Michela Vittoria Brambilla - sono figli e nipoti di imprenditori. E nelle loro fabbriche tutti gli operai (se non sono immigrati) sono figli di operai.
Ovvio che questa è una questione che deve stare molto a cuore a un Partito democratico agile e nuovo. Di partiti in cui tutte le teste televisive parlanti sono pronte a cori di esultanza quando parlano Draghi e Montezemolo (sempre molto apprezzata l’ammonizione al taglio delle pensioni, sempre un po’ di stizza per quei perdigiorno conservatori annidati in fabbrica che vorrebbero, dopo anni, smuovere la barriera perenne dei mille euro al mese e quella ‟moderna” del contratto a progetto) ce ne è una quantità imbarazzante.
Il problema non è affatto uno scivolare, a seconda degli umori, o un po’ più a destra o un po’ più a sinistra. Però è inevitabile che un Partito democratico moderno si ispiri per forza a grandi voci nella cultura del mondo industriale avanzato, come Amartya Sen che ci ha narrato il cambiamento del poverissimo Stato indiano del Kerala attraverso il cambiamento della condizione delle donne, che sono passate, in una generazione, da nove a due figli (e difficilmente sarebbero state festeggiate all’italianissimo ‟Family day”) che sono andate a scuola, che sono diventate dirigenti e amministratrici anche senza quota rosa. Come Joseph Stieglitz che, da grande economista, non andrebbe mai in giro a dire che la ripresa di un Paese ‟è merito esclusivo delle imprese”. Come John Nash, che dalla sua cattedra di matematico a Princeton ha calcolato ‟il punto di equilibrio” fra investimento di capitali e investimento di lavoro (e la relativa equa retribuzione) e l’ha definito ‟l’equazione del socialismo”. Come Paul Krugman che, dalla stessa Università di Princeton, calcola e pubblica ogni settimana sul New York Times ‟lo spreco americano di vite, destini, talenti, lavoro gettati nel buco nero di un precariato senza fine, mentre il punto più basso e quello più alto dei compensi di chi lavora sopra e sotto l’impresa sono mille volte più lontani che dieci anni fa”. ”Mille volte” non è un modo di dire ma il risultato di un calcolo. Nella visione di Krugman, il mondo dei manager diventa un club di cooptati lungo percorsi di favore, e quello del lavoro diventa polvere. Ho citato premi Nobel per l’economia per restare non fra i sogni ma nei fatti, anzi tra i numeri. Una solida ispirazione, no?
Mi chiederete perché mi impiccio dei lavori in corso per un nuovo partito che non mi ha chiesto niente né dato alcuna notizia, a parte quelle che tutti apprendiamo in televisione (come la curiosa proposta secondo cui il presidente del nuovo partito nomina il segretario del nuovo partito, motu proprio).
Risponderò che nel mondo libero tutti si impicciano, che la speranza è l’ultima a morire e che chi vivrà vedrà. Tre luoghi comuni utili e pertinenti in questo caso. Visto che il partito non c’è ancora, perché non sperare in un mondo più grande, più libero, più creativo dei chiusi e litigiosi vertici notturni di cui siamo spettatori indiretti e lontani, simpatizzanti per sentito dire?
Sul ‟chiuso” che è tipico dei cantieri, ricorderò una piccola idea geniale di Donald Trump, il grande costruttore americano sospetto di molte scorciatoie legali nel suo Paese, ma non privo di fantasia. Notando che i suoi cantieri incombevano su New York come astronavi aliene e impenetrabili, ha avuto la trovata di inventare i ‟cantieri aperti”. Così adesso tutti possono vedere i lavori da grandi aperture nei recinti di legno o metallo degli scavi. L’ingombro resta ma diminuisce il fastidio perché - volendo - tutti possono seguire ciò che avviene e constatare, di giorno in giorno, il cambiamento nel cantiere.
Nella vita pubblica tutto ciò si chiama comunicazione. Forse spiriti liberi ed esperti di comunicazione come Gad Lerner potrebbero suggerire di rubare un’idea a Radio Radicale. Meglio, di chiedere a Radio Radicale di trasmettere, quando si può in diretta, e se no in differita, ogni seduta, confronto, discussione, litigio del costituendo Partito democratico. Di colpo l’atmosfera si farebbe diversa, la partecipazione meno impossibile, la fiducia più alta. O almeno un’attesa meno depressa, sottomessa e remota. Non è poco.
Vorrei raccomandare caldamente questa piccola trovata del cantiere aperto, attraverso l’espediente della trasmissione. Occorre ricordare che sono in corso due sgomberi, già di per sé disorientanti, ognuno nel territorio dell’altro ma con un pesante bagaglio di cose proprie, cose di prima e progetti di dopo, che non sarà facile ricollocare. Ma mentre avvengono i due sgomberi e gli scambi di territorio, eventi di per sé disorientanti (specie se i leader parlano solo tra loro e spesso in codice) arriva - o potrebbe arrivare - il corteo di coloro che prima non c’erano e che ora esitano sulla soglia del voto, i cittadini senza gerarchie di partito detti, con un po’ di fastidio, ‟la società civile”. Ma se ne potrebbero andare di brutto (e andare per sempre) se trovano le porte sbarrate e sono destinati a ricevere notizie solo dai ‟panini” dei telegiornali o dagli umilianti talk show che riproducono per sempre un’Italia immobile nel passato, come un brutto museo delle cere.
Intanto incombono, promettenti o minacciosi, nuovi eventi che chiedono nuova politica.
Propongo un parziale elenco di materie incombenti, che preoccupano tanti davanti alle porte chiuse perché il partito non è pronto ma le vecchie case sono state smontate ed è cominciata una lunga attesa. Coloro che aspettano sono carichi di oggetti smarriti e bagagli che ancora non sanno se e dove depositare. Per esempio.
Il costo della politica. Mentre scrivo mi passano rasenti sopra la testa nel centro di Roma, gli aerei militari che partecipano alla parata del 2 giugno, la parata dei settemila ‟soldati del futuro” con cui gli italiani sono invitati a celebrare la festa della Repubblica. E di colpo mi viene in mente una immensa parte sommersa dei costi della politica. Sono i costi delle grandiose spese di forma e di rappresentanza di questo Paese antico e barocco che si svena per questioni di forma. Ricordate il summit, realizzato con i fondi della Protezione civile, nel set teatrale di Pratica di Mare che, credo, data la stravaganza e l’incredibile eccesso di spesa, nessuno dei partecipanti ha dimenticato?
Giusto andare a vedere con comprensibile astio il costo di un cappuccino alla bouvette di Montecitorio. Ma intanto un mare di auto blu circola su tutte le strade e a tutti i livelli (i tre poteri e poi lo Stato-istituzione, e poi lo Stato-politica, e poi lo Stato-burocrazia con tutte le sue agenzie e poi Regione, Provincia, Comuni moltiplicato per tutti i suoi ambiti territoriali e poi tutte le authorities). E una flotta di aerei di Stato attraversa i cieli. E, alle scadenze dovute, le risorse non grandi della Difesa italiana vengono bruciate per fare bella figura, con costi difficili da immaginare, che infatti le corrispondenti autorità di altri Paesi europei si guardano bene dall’organizzare, tenendosi fuori dal costo dello spettacolo.
È solo un modo per dire che tutto ciò che furiosamente e sarcasticamente si elenca come dissipazione pubblica, quando arriva la brutta stagione per la parte visibile della politica, non è che una scheggia di un immenso oggetto sconosciuto e, in parte, impenetrabile.
Scuola, nella confusione del momento, partito di prima, partito di dopo, laici, credenti e valori condivisi, qualcuno si è accorto che i versamenti alla scuola privata (scuole religiose, non asili) sono improvvisamente aumentati (dunque a danno della scuola pubblica); e che, per la prima volta, con una grande violazione costituzionale, il voto di religione farà media con greco, latino, storia, geografia e matematica negli scrutini di fine anno del 2007? Forse i due partiti che arrivano a incontrarsi provenendo dal polo laico e da quello religioso, si scambiano doni, in occasione dello storico incontro. Ma ‟scambiare” non è la parola giusta. Noi vediamo i doni fervidamente offerti alla Chiesa. Ma lo ‟scambio” avviene in un modo curioso. Coloro che dicono di rappresentare la Chiesa, ora che ci mettiamo insieme, chiedono di più, molto di più di quando erano ‟partito cristiano”. Il grido sessantottino immortalato dal libro di Balestrini ‟Vogliamo tutto” è diventato il motto del nuovo militantismo religioso che si insedia nel centrosinistra, fra inchini, saluti e cenni severi che ti dicono ‟bisogna tener conto della sensibilità cattolica”. Ho capito, ma delle sensibilità estranee alle preferenze del Papa non dobbiamo tenere alcun conto?
Infatti dei Dico non si sente più parlare. Il ‟Family day” ha emesso la sua fatwa e non si deve irritare la sensibilità religiosa ai valori della famiglia che noi, non credenti, non possiamo neppure immaginare.
Quanto al testamento biologico, che vuol dire decidere in anticipo sulle cure che vorrai o non vorrai ricevere quando non sei più in condizione di decidere da solo (una legge che esiste in tutto il mondo libero), si tratta di un progetto preparato con meticolosità e competenza dalla Commissione Sanità del Senato presieduta da Ignazio Marino, medico noto e scrupoloso legislatore. Nella sua commissione sono stati sentiti gli esperti del mondo, scienza, legge, religione. Non importa. La ‟sensibilità” è scontenta.
Riusciremo a portare questo oggetto, simbolo della civiltà contemporanea, di là dalle porte chiuse del partito in costruzione quando quelle porte saranno aperte e chi vorrà potrà entrare? Che segno sarà se oggetti simboli di un Paese nuovo saranno lasciati fuori, per esempio abbandonandoli nelle insondabili dilazioni delle procedure parlamentari?
Un incubo è la legge Mastella sulle intercettazioni giudiziarie.
In essa ogni colpa, responsabilità e pena (pesantissima) sono esclusivamente a carico dei giornalisti. Con quella legge un governo e una maggioranza di centrosinistra metterebbero una pietra tombale sul diritto-dovere di informare e perfino sulla possibilità materiale di farlo. È chiaro, è ovvio che quella legge non si può votare. Ma la domanda è: che messaggio manda il nuovo partito lasciando sulla porta del suo nuovo insediamento la testa tagliata della libera stampa?
Infine vorrei scuotere i fondatori nominati o cooptati del nuovo partito da una curiosa indifferenza che sembra averli colti. La difesa e la liberazione di Ramatullah Hanefi, dovrebbe essere la causa del nuovo partito.
E in questi giorni la bandiera dovrebbe essere la moratoria mondiale contro la pena di morte da votare subito alle Nazioni Unite e per cui Marco Pannella rischia di nuovo con lo sciopero della sete iniziato ormai da sei giorni. È vero che il governo italiano ha tenuto fede, finora, al suo impegno per ottenere la moratoria. Ma una bandiera contro la pena di morte è un bel simbolo per un nuovo partito. Meglio che discutere di nomine, autonomie e cooptazioni. Altrimenti si impone e domina il grigio del vecchio mondo partitico. Ad esso tanti cittadini italiani hanno già voltato le spalle.

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …